• 3484007614
  • ezio@franchinosrl.com

Archivio annuale 28/09/2012

per Gianni san ecco cosa ti aspetta

condividi:

Satoru Tsuchiya

Satoru Tsuchiya è il rappresentante in Francia della scuola Shodokan Aikido fondata da Kenji Tomiki, studente di Jigoro Kano e successivamente di Morihei Ueshiba. Questa scuola unica nel suo genere introduce un sistema di competizione che preserva contemporaneamente i principi fondamentali dell'Aikido e lo spirito moderno del Judo.

Dopo le presentazioni ufficiali, posso dire che le competizioni personalmente non mi interessano e tantomeno se vedono coinvolto l'Aikido, ma in questa dimostrazione ho trovato molto interessante vedere l'applicazione di tecniche di difesa da coltello in un contesto "non dichiarato". Ho trovato una piacevole coesistenza di efficacia ed eleganza senza scadere nel caotico "polverone" tipico delle competizioni dovuto alla determinazione di voler vincere.

Ma fatevi voi stessi la vostra opinione: 

condividi:

ezio sensei

volevo fare una piccola riflessione, sulla lezione di giovedì,

come tutti sanno Ezio non c'era (e a lui va il nostro affetto quando perdi una persona cara).

Ecco io (almeno parlo per me) ho avvisato un vuoto strutturale o che dir si voglia spirituale nello svolgimento della lezione.

Pat, Alex Fabio e Gianni sono stati perfetti, meglio di così non si poteva fare,ecco allora comprendo che c'è una continuità nel lavoro di Ezius.a livello tecnico.

Questo fa ben sperare, vuol dire che stà lavorando con la giusta Via, e che Noi non stiamo sprecando il suo tempo.

questo parlando di Aikido dovrebbe essere motivo di incentivazione per tutti.

condividi:

i kata cosa sono?

Il kata
Posted by Luigi Branno on giugno 6th, 2012 02:19 PM | Articoli 
Share on facebook Share on twitter Share on delicious Share on digg Share on stumbleupon Share on reddit Share on email More Sharing Services
Chi pratica arti marziali sa bene, in generale, cosa sia un kata: è quella forma, quello schema motorio fissato in anticipo, che consente sostanzialmente di esercitarsi ed apprendere una tecnica o un insieme di tecniche di attacco e/o di difesa. Esistono kata elementari, per l’apprendimento iniziale, e kata via via più complessi e anche più difficili da memorizzare. Esistono kata fondamentali e kata opzionali. O qualcosa di simile. Le differenti discipline marzialistiche, quindi, si distinguono in base al corpus di kata che viene di volta in volta tramandato. È qualcosa di molto simile alle diverse leggi che vengono tramandate nello studio delle diverse branche della scienza: le leggi e gli esperimenti di Archimede, Galileo, Newton, etc. in fisica, per esempio, o quelle di Mendeleev o di Lavoisier in chimica. Da un punto di vista didattico è qualcosa di molto simile ai moduli attraverso cui, a scuola, studiamo i diversi aspetti di questa o quella scienza.

 

Tutto sommato questa visione del kata non è per nulla sbagliata. Tuttavia, a mio avviso, rischiamo di incorrere in una serie infinita di equivoci, soprattutto se ci limitiamo ad una semplice “traduzione” di elementi culturali giapponesi in quelli occidentali. Il rischio principale è di farsi abbagliare dal dito che indica, perdendo di vista ciò che viene indicato. Tale rischio, beninteso, è corso spesso dagli stessi Giapponesi, nella pratica delle arti marziali così come nello studio di un qualunque kata, che finisce col diventare lo scopo ultimo dello studio, senza rendersi conto che si tratta sempre solo di un mezzo di apprendimento. Tuttavia, per noi Occidentali, il rischio è maggiore, poiché ci troviamo di fronte a concetti che ci risultano estranei e non immediatamente comprensibili: molto spesso, nello studio di un’arte orientale (che sia marziale o meno), ci occorrono anni anche solo per capire cosa esattamente stiamo studiando, proprio perché non abbiamo i riferimenti culturali necessari ad intendere immediatamente certi concetti.

 

Uno dei fraintendimenti principali che sorgono quando si tratta di discipline orientali, soprattutto di quelle che affondano le radici nel terreno della spiritualità zen, nasce spesso da una disposizione d’animo assolutamente favorevole e tanto più, quindi, difficile da sradicare, perché frutto delle migliori intenzioni. Noi Occidentali, infatti, ci sforziamo di penetrare in una sfera che ci appare misteriosa e affascinante ma che continuamente ci sfugge e finiamo col conferire un eccessivo misticismo a concetti e parole chiave che spesso fanno parte del linguaggio comune giapponese. Ad esempio, non troviamo nulla di particolarmente mistico in un’espressione romantica come il “genio poetico” o la necessaria “ispirazione” dell’artista. Questo non vuol dire che la creazione artistica, anche in Occidente, non sia ammantata da un’aura mistica e quasi religiosa: semplicemente, sappiamo di usare tali termini, nel linguaggio comune, in accezioni molto spesso sfumate, “normali”, senza ricercarvi un particolare mistero da penetrare. Viceversa, quando sentiamo la parola ki, subito vi ricerchiamo un particolare significato mistico, quasi che dovessimo scoprire un fluido magico che pervade il corpo del guerriero zen e di cui sarebbe privo il povero contadino. Perdiamo così di vista il senso delle cose e cadiamo, proprio noi razionalisti e tecnici Occidentali: dalla mistica e dalla spiritualità alla più gretta superstizione. Forse, questa incapacità di comprendere con lo “spirito” giusto la spiritualità zen, è radicata nel fatto che l’Occidente ha creduto giusto separare in maniera tanto netta diverse sfere del sapere e della vita, cosicché tutto ciò che non è perfettamente logico come un calcolo matematico cade fuori dalla scienza e tutto ciò che ha già un sapore di metafisica e di spiritualità rientra nella magia e nella superstizione. E così non facciamo altro che guardare all’Oriente come al nostro inconscio represso, scorgendovi subito misteri, incantesimi, magie e occulte forze spirituali.

 

L’esigenza di questa riflessione sul kata mi è sorta durante lo studio della poesia giapponese. Ho sempre dato per scontato che questa parola fosse un termine tecnico delle arti marziali come lo Judō, il Karate, il Kendō e, non ultimo, l’Aikidō (in Aikidō si studiano solo kata perché non c’è agonismo, a quanto ho sempre sentito dire). In realtà, kata è una parola che si ritrova in tutte le discipline giapponesi ed in particolare nei dō, e finanche nel teatro e nella poesia. D’accordo: se indica le tecniche di una disciplina, è normale che si ritrovi nell’insegnamento di tutte le discipline. Ma nella cerimonia del tè? Nel teatro nō? In poesia? Che tecniche indicherebbero i kata di queste forme artistiche (posto che di forme artistiche si tratti)? Davvero possiamo riferirci al kata come a una tecnica? E davvero l’essenziale della cerimonia del tè sarebbe in un insieme di tecniche?

Il kanji del kata è 型: tale ideogramma è un composto fono-semantico in cui il kanji 刑 (che indica punizione, legge) è usato in funzione fonetica e il kanji 土 (che indica “terreno”, “suolo”) ha un valore puramente semantico. Quindi il senso più generico di kata è una forma radicata, una sorta di norma che fa da terreno comune, un fondamento stabile su cui, evidentemente, si costruisce il percorso di un dō. Il terreno indicato dal kata è quello della tradizione, l’insieme di norme, comportamenti, esempi che ci vengono tramandati dal passato, dagli antichi maestri e che, per definizione, non è “inventato” da nessuno: è il terreno comune, la base della pratica, tramandata di generazione in generazione. Nessuno può inventare un kata, altrimenti semplicemente non si tratta di un kata: questo fatto è cruciale, per capire di cosa stiamo parlando.

Nel teatro nō, il kata è tutto: esistono movimenti precisi, passaggi precisi, precise maschere, personaggi, frasi. Tutto è stabilito attraverso un insieme cospicuo di kata che nessun autore di opere nō si sognerebbe di modificare. Questo non vuol dire che si debbano eseguire sempre gli stessi spettacoli e nemmeno che i kata debbano essere eseguiti sempre allo stesso modo, come cinquecento anni fa. Il teatro nō fu praticamente fondato nel Trecento da Kan’ami Kiyotsugu e da suo figlio Zeami Motokiyo (a tutt’oggi il più prolifico autore di testi teatrali, con oltre duecento opere): ma anch’essi non fecero altro che sistemare la materia teatrale del passato e organizzare i kata, fondando quindi il nō attraverso una struttura che individuasse quella peculiare tradizione. Da allora ad oggi il teatro nō si è tramandato attraverso l’insegnamento di generazioni e generazioni di maestri, autori, attori che a poco a poco hanno introdotto nuovi kata, modificato i preesistenti, affinandoli o arricchendoli, eliminato altri. E tuttavia nessuno può dirsi “inventore” di questo o quel kata, nemmeno Kan’ami o Zeami.

Questo stesso discorso vale in poesia: la poesia giapponese, infatti, a differenza di quella occidentale, non è fatta da grandi “geni”, individui particolari che da soli cambiano ogni anno le regole, “sconvolgono” la tradizione ogni dieci anni e finiscono soltanto col creare mode passeggere, credendo di essere unici e perseguendo l’immortalità. La poesia giapponese, come ogni forma d’arte giapponese, affonda le sue radici nei kata della tradizione e il singolo poeta è tanto più grande quanto più sa farsi da parte e diventare uno strumento affinché la tradizione si attualizzi in questo o quello scritto. Per questo la rana di Bashō è a ragione diventata l’emblema della più elevata forma di poesia giapponese: perché quell’immagine non è l’espressione dell’io di Bashō, né di quella particolare rana, né di quello stagno; ma in quel tonfo nell’acqua confluisce tutta la poesia giapponese e tutto il senso dell’illuminazione zen. Bashō, propriamente, non ha “inventato” niente. La poesia giapponese ha il sapore di un’arte combinatoria che mescola tra loro elementi fissi: kigo, kireji, makura-kotoba, ecc., cioè parole, espressioni come “luna velata”, “la montagna dove si trascinano i piedi”, “prime piogge” che sono state fissate dalla tradizione e che vengono inserite ancor oggi immutate. Scrivere una poesia vuol dire quindi sostanzialmente mettere insieme tra loro questi elementi, creare un’armonia particolare, sviluppare immagini originali a partire da elementi tradizionali. Il poeta giapponese non cerca di distinguersi per inventiva e originalità, piuttosto la sua originalità è data dalla capacità di conferire sfumature nuove alle vecchie immagini.
Ma questo stesso discorso vale in ogni forma d’arte e tanto più dovrebbe valere nelle arti marziali: Ueshiba non ha, in senso stretto, inventato nulla. Ha organizzato una tradizione, selezionando un insieme di kata e trasmettendolo nella sua scuola. Ha così fondato l’Aikidō, proprio come Kan’ami fondò a suo tempo il teatro nō e Bashō la poesia moderna. Ha fondato, non inventato!

Ora, vale per i kata quello che vale per la tradizione culinaria di un popolo: non c’è nessuno che possa vantare un brevetto sulla pasta e patate o sulla pastiera. La ricetta della pasta e patate, per dire, è quindi a tutti gli effetti un kata: un insieme di norme tramandate dalla tradizione che consente di fare un buon piatto. Ma questo non vuol dire che per fare la pasta e patate uno debba per forza avere la ricetta contenuta ne La cucina napoletana di Francesconi! E, del resto, si sa, ogni famiglia ha la sua pasta e patate: chi ci mette la provola e chi no, chi fa soffriggere il sedano e chi invece il sedano non lo digerisce. Ovviamente la vera pasta e patate è quella che faceva mia nonna. La “mia nonna” di ognuno, s’intende. Si può divorziare, per colpa di una pasta e patate! Tuttavia, sappiamo altrettanto bene, che la pasta e patate resta pasta e patate in ogni caso: si può preferire una variante piuttosto che un’altra e ovviamente si può ritenere che la pasta e patate sia semplicemente immangiabile. De gustibus disputandum non est. Tuttavia, nessuno si sognerebbe di discutere sulla cucina napoletana e nessuno metterebbe in dubbio che la pasta e patate, pur nelle sue varianti, è un piatto di cucina napoletana. Lo “spirito” della cucina napoletana, in fondo, non sta nella pasta e patate. E nessuno può definirsi un buon cuoco se sa preparare una perfetta pasta e patate ma nient’altro. Si può certo iniziare a lavorare in cucina, preparando per mesi o anni sempre solo le verdure per il soffritto ma, attraverso l’esecuzione di questo semplice kata (perché di un kata si tratta) si acquisisce gradualmente una padronanza degli elementi di base della cucina ed è quella padronanza a formare un buon cuoco, a prescindere poi dal piatto che si dovrà preparare. Allora, quando si saranno appresi i segreti del mestiere, si potrà anche decidere di “decostruire” la pasta e patate. Saper cucinare vuol dire, in fondo, saper fare in modo che i sapori si sposino bene tra loro. A prescindere da ricette e ingredienti.

Tanto più Nell’Aikidō dovrebbe valere questo discorso, proprio perché la via indicata qui è quella dell’armonia: è la sapienza che armonizza una relazione, ancorché una relazione violenta. Saper eseguire alla perfezione questo o quel kata equivale a saper eseguire alla perfezione questo o quel piatto di pasta. Fissarsi su questa o quella variante di ikkyo equivale a fissarsi su questa o quella variante della pasta e patate. Nessuno può dirsi aikidōka se sa eseguire solo un insieme di kata, così come nessuno può dirsi cuoco se sa preparare solo i piatti contenuti nel suo ricettario. Il ricettario, come l’insieme dei kata, è solo un terreno comune, che ci consente di apprendere, poco alla volta, i segreti di una tradizione. Apprendere i segreti di una tradizione vuol dire saper padroneggiare l’arte che quella tradizione veicola: sicuramente ognuno avrà poi i suoi punti di forza e le sue debolezze (quel cuoco può essere particolarmente bravo nei primi piuttosto che nei secondi, quell’altro può avere una ricetta segreta che lo ha reso famoso) ma in ogni caso siamo tutti d’accordo sul fatto che saper cucinare non vuol dire eseguire una ricetta piuttosto che un’altra. E questo vale in ogni arte: si possono prediligere i paesaggi anziché i ritratti, ma il segreto della pittura non sta né negli uni né negli altri, bensì in una padronanza della tecnica che ne faccia emergere quel qualcosa di mistico per cui di fronte a un’opera d’arte possiamo arrivare a commuoverci.

 

Bashō insegnava:

Nell’arte del maestro c’è ciò che rappresenta “l’invariabile per diecimila generazioni” [bandai fueki] e ciò che rappresenta “il mutamento momentaneo” [ichiji no henka, ovvero: ichiji ryūkō]. I due estremi hanno un’unica base, rappresentata dalla verità dell’arte. Se non si comprende l’invariabile, non si può capire veramente l’arte. L’invariabile non dipende da quanto ci sia di vecchio o di nuovo, né dal mutamento, né dalla moda, ma è un aspetto fondato sul vero dell’arte. […] È però naturale che tutto muti e in modi diversi. Se l’arte non muta non si rinnova nemmeno il suo stile. Se lo stile non si trasforma, esprime semplicemente una forma temporanea, di moda, priva di ricerca del vero dell’arte. […] Chi è alla ricerca, invece, non potrà mai essere fermo in un punto ma procederà, di passo in passo, in modo naturale. In futuro l’arte dell’haikai subirà mille mutamenti, ma i cambiamenti veri apparterranno sempre all’arte del maestro. Il maestro disse in proposito: «Non leccate mai la bava degli antichi. Tutto si rinnova nel modo in cui si evolvono le quattro stagioni».
(da Hattori Dohō, Sanzoshi)

Fermarsi ai kata, senza rinnovarli nella propria pratica, attraverso la diretta partecipazione di tutto il proprio essere, e quindi rendendoli adatti al momento presente, equivale a null’altro che a leccare la bava degli antichi.
Viviamo in Occidente in una sorta di schizofrenia, per cui da un lato guardiamo con sospetto a tutto ciò che non è afferrabile logicamente e dall’altro ci buttiamo a capofitto in forme di superstizione che ci fanno accogliere un singolo kata come un portone per l’illuminazione. Dovremmo forse riequilibrare l’aspetto razionale con quello spirituale, la “mente” e il “corpo”, se vogliamo vivificare la tradizione attraverso una pratica che affonda i piedi nella nostra realtà quotidiana. Trovare il senso più intimo di ciò che facciamo. Eseguire kata in maniera pedissequa può accecare, come ogni forma di onanismo mentale.

A mio avviso, giungiamo necessariamente a queste conclusioni se guardiamo al kata nella sua essenza. “Nella sua essenza” vuol dire: se lasciamo essere la cosa stessa ciò che è e ci lasciamo guidare da essa nella comprensione. Questo è per me il senso del principio confuciano del rettificare i nomi. Se accogliamo senza riserve una terminologia più o meno “tecnica”, come quella di un’arte marziale, senza cogliere l’essenza di un termine, ci stiamo decidendo per una fuoriuscita di noi stessi dalle cose che facciamo: come i pappagalli, parliamo senza sapere ciò che diciamo. Così, se imitiamo i kata dei nostri maestri, ci decidiamo per un apprendimento da circo, preferendo essere ammaestrati come scimmie, piuttosto che praticare l’aikidō. Un maestro zen disse una volta che, se il segreto dell’illuminazione fosse nello zazen, la rana sarebbe già illuminata.

condividi:

vi parlo di un mio amico…stefano bresciani di www.budoblog.it

stefano bresciani

Inizia a praticare KARATE "Shotokan" nel 1994 presso il Karate Club Ghedi. Consegue il grado di cintura nera 1° dan nel 1999 a Curnasco di Treviolo (BG), dove nel 2002 ha ottenuto anche il 2° dan.
Nel 2002 ha frequentato e superato il corso di formazione per Aspiranti Allenatori FIJLKAM tenutosi a Milano (teoria) e Curnasco di T. (pratica).
Nell’Ottobre 2006 ha conseguito a Cambiago (MI) anche il  3° dan.

Stefano Bresciani Dal 2001 al 2007 è stato vice presidente dell' "A.S.D. Karate Leno" e, pur avendo iniziato a gareggiare un po' tardivamente, ha ottenuto nella categoria kata seniores il 1° posto ai campionati provinciali del 2002, oltre a buone soddisfazioni in competizioni locali.

Nel 2003 inizia a praticare AIKIDO, presso la società Aikido Club Brescia, dove ha conseguito la cintura nera 1° dan a Milano il 29 Giugno 2008, partecipando a circa 30 stage nazionali. Nel Settembre 2008 ha partecipato ad Aosta al corso istruttori tenuto dall'ente di promozione sportiva C.S.N. Libertas, che gli ha riconosciuto il grado di Tecnico Nazionale CONI di AIKIDO.

Il 18 Dicembre 2010 ha superato brillantemente sia l'esame di 1° DAN nella disciplina IAIDO (spada giapponese), sia l'esame di 2° DAN di AIKIDO in vista dell'affiliazione alla prestigiosa scuola Tendo-ryu del M° K. Shimizu (ultimo allievo diretto del fondatore O' Sensei M. Ueshiba), nata in Italia grazie al sapiente e prezioso lavoro del M° Massimiliano Gandossi.

Prima della nascita del Tendo-ryu Italia dal Gennaio 2007 al Dicembre 2010 ha tenuto corsi settimanali di BUSHIDO, ora organizzati a numero chiuso in seminari full-immersion (vedi pagina dedicata). In questa disciplina, dopo il Corso Nazionale Istruttori tenuto a Marchirolo (VA) dalla scuola Bushidokai Italia, ha conseguito nel Dicembre 2006 il grado di 1° dan e di istruttore, riconosciuto dall’International Budo Institute.

Dal 2006 al 2009 ha inoltre praticato parallelamente KUNG-FU (scuola Shaolin Ch’uan) e T'AI CHI CH'UAN (scuola Yang del M° Chang Tsu Yao), con il celebre Maestro Gatti, presso le sedi di Manerbio e Bagnolo Mella (BS).

Nella continua ricerca del suo DO (via) ha intrapreso la meditazione ZEN e sui 5 ELEMENTI, presso il circolo culturale I Giunchi di Brescia, dove ha ricevuto nel Giugno 2005  il 1° livello REIKI e nel Febbraio 2011 anche il 2° livello.

Dedito da tempo allo studio e alla ricerca nel campo della cultura e preparazione fisica, ha elaborato il "Manuale Tecnico" per gli insegnanti di Karate, oltre al PMP (programma di Potenziamento Muscolare Personalizzato), con relative schede adattate agli atleti dei corsi tenuti.

Appassionato anche ad altre discipline orientali (quali la calligrafia SHODO, il gioco del GO, lo YOGA e il CH'I KUNG), nel 2006 ha messo a frutto la sua conoscenza attraverso una ricerca che ha pubblicato con la casa editrice Montedit (Aprile 2007): il libro intitolato "105 modi per conoscere l'Oriente", un dizionario sulle arti e sui vocaboli orientali più usati al giorno d’oggi.

Il 13 Maggio 2009 è uscito il suo primo Ebook pubblicato dalla casa leader del settore – la Bruno Editore – intitolato "La_Ruota_del_Benessere". Trattasi di un manuale di crescita personale orientata all'equilibrio di corpo, mente e spirito, applicando le strategie e i segreti della PNL (Programmazione Neuro-Linguistica). Il 1 Febbraio 2011 è uscito sempre con la Bruno Editore il suo 1° ebooket (mini-ebook di 110 pagg.) "Energia e Benessere"in cui approfondisce alcune tecniche orientali per chi vuole ottenere in tempi record notevoli miglioramenti nel proprio benessere fisico. Infine, ad Agosto 2011 è uscito il suo ebooket "Stress da lavoro? No grazie! – applica le tecniche di meditazione orientale per risolvere i conflitti sul lavoro e vivere in armonia".

Webmaster molto attivo, scrive articoli come membro del TeamEsperti di Piùchepuoi.it, BrunoEditore.it e nel BLOG di cui è fondatore: BudoBlog.it (Arti Marziali sulla Via della Pace).

Dedito da tempo allo studio della difesa personale, ha focalizzato la sua preparazione nel campo dell'antiaggressione femminile. Il 4-5 Ottobre 2008 ha frequentato e superato il corso di formazione istruttori metodo DifesaDonna® livello Base, tenuto presso la “Bono Academy A.S.D.” di Sesto S.Giovanni (MI) dal celebre  Roberto Bonomelli, fondatore di Akea e del metodo n° 1 in Italia di Antiaggressione Femminile. Sabato 23 Maggio ha frequentato e superato il corso ASP di 12 ore tenuto presso la "Bono Academy" di Sesto S.Giovanni (MI), il miglior sistema americano di tecniche difensive per le forze dell'ordine, compreso l'uso del bastone estensibile e del pepper-spray.

Nel week-end 4-5-6 Dicembre 2009 (15 ore full-immersion su difesa da coltello e da più aggressori, uso di armi occasionali e del pepper-spray) ha frequentato e superato il corso di formazione istruttori metodo DifesaDonna® livello Avanzato, tenuto presso la “Bono Academy A.S.D.” di Sesto S.Giovanni (MI).

Referente per la provincia di Brescia della scuola Bushidokai-ryu nonché fondatore del dojo Leno e da Agosto 2009 della Bushidokai ShinGiTai A.S.D. in veste di Presidente, la sete di sapere e arricchimento è costantemente presente nei suoi obiettivi, che si sposano con la nascita del sito BSGT.it

condividi:

Onisaburo l’uomo che ispirò O-Sensei

tratto aikido-vittorio veneto.it

 

Onisaburo Deguchi

Intorno al XIX secolo era nata la speranza che una nuova epoca sarebbe emersa dal caos e molti profeti predicavano una via sul come uscire da questo periodo buio. Molti di questi profeti furono donne contadine o comunque di basso rango al tempo più vicine a Dio rispetto alle signore aristocratiche. Nel 1836 nacque Nao Deguchi unica sopravvissuta della sua famiglia decimata da una delle più disastrose carestie del Giappone. Anche se Nao sopravvisse la sua vita fu dura fino al compimento del suo diciassettesimo anno di età, anno in cui venne adottata da una sua vecchia zia appartenente alla famiglia Deguchi. Con la zia rimase circa un paio d'anni fino alla morte suicida di quest'ultima. Nao si maritò poi con un maestro carpentiere, un uomo che non amava, ma dal quale poteva ambire ad una vita migliore. Purtroppo la combinazione del bere sakè, delle notti fino a tarda ora in città e gli incidenti sul lavoro lo fecero diventare un invalido disoccupato, cosicché la famiglia Deguchi divenne sempre più povera.

Fin dalla giovinezza Nao sentiva voci interiori che la portavano a meditare giorni interi sulle montagne. Nel 1892 Nao, allora cinquantasettenne, ebbe una visione da parte del Kami Konjin, il quale le disse di purificarsi per i tredici giorni successivi e pregare. Dopo questi giorni di meditazione e preghiera Konjin le ordinò di scrivere i Fudesaki, gli scritti che vengono da Konjin. In poco tempo con la diffusione di questi scritti, questa religione trovò molti seguaci. Nel 1898 fu avvicinata da un giovane nato a Kameoka nel 1871 di nome Kisaburo Ueda. Il giovane Ueda era un giovane molto intelligente che amava la letteratura, la calligrafia e la pittura. Nel 1897 perse il padre e attraversò una crisi spirituale: si rifugiò quindi in una caverna del monte Takakusa deciso a trovare la verità e in quel luogo vi rimase una settimana in una trance divina ricevendo i segreti degli dei. A questo suo messaggio che portava alla popolazione non ebbe risposta. Un giorno dopo molti studi e mentre si trovava a praticare riti in un santuario Kisaburo sentì una voce che gli indicava di andare a ovest. Fu così che Kisaburo e Nao si incontrarono. Ueda andò ad abitare nella casa Deguchi avendo sposato la figlia di Nao, Sumi e prendendo il nome di Onisaburo. Nel 1913 Onisaburo fondò l'Omoto-kyo e quando, nel 1918, morì Nao divenne il “Santo Guru”. Diffuse molto la sua religione e scrisse anche molti libri. Onisaburo era un maestro spirituale che calmava migliaia di persone con la meditazione. Tra il 1919 e il 1921 gli adepti divennero milioni. Fu proprio in questo periodo che Morihei sentì parlare del “Santo Guru” e preoccupato per il padre malato decise di passare ad Ayabe per pregare per lui. Appena arrivò ad Ayabe, Morihei sentì subito che quel posto aveva un non so che di spirituale; si recò subito al santuario e quindi si mise subito a recitare i mantra shingon. Una figura si avvicinò a lui e gli disse che suo padre stava bene com'era e che doveva lasciarlo andare: era Onisaburo Deguchi. Dopo la morte del padre, Morihei, nello stupore di tutti, decise di unirsi all'Omoto-kyo. In questo periodo si dedicò completamente allo studio della religione e all'agricoltura, un lavoro che si diceva molto affine al samurai e alla pratica Zen in quanto si era in costante contatto con la natura. In poco tempo divenne capo dell'”Accademia Ueshiba” costruita col favore di Onisaburo Deguchi e lì insegnò agli adepti dell'Omoto-kyo.

Il carisma di Onisaburo era arrivato fino in Mongolia all'orecchio di Yutaro Yano, un ufficiale della Marina che aveva problemi con la popolazione ribelle e viste le aspirazioni del Guru di diffondere la propria religione in tutto il mondo, non si fece scappare quest'occasione. Nel 1924 così Onisaburo e Morihei con altre persone partirono alla conquista spirituale della Mongolia. Arrivati non ebbero vita facile vista la riluttanza delle persone a credere in qualcosa; venivano infatti chieste loro continue prove spirituali. Dopo poco tempo furono arrestati e i loro beni vennero confiscati. Passarono pochi giorni che vennero rilasciati e vennero trattati da pascià: gli diedero vestiti nuovi, un bagno caldo e vennero rasati… ma questo non era altro che la preparazione alla loro esecuzione. L'esecuzione però non ebbe luogo perché i mongoli avevano troppa paura di un intervento militare diplomatico da parte del Giappone. Fecero ritorno in Giappone e le vie di Onisaburo Deguchi e Morihei Ueshiba si divisero anche se Ueshiba rimase per tutta la vita un fermo credente di questa religione. Onisaburo decise di allargare il suo progetto divino di portare il Paradiso sulla Terra; decise di espandere la sua religione cominciando a vestirsi come un imperatore, portando quindi le effigi imperiali cosa che attrasse l'attenzione della polizia imperiale. L'8 dicembre 1935 la polizia arrestò il “Santo Guru” con l'accusa di lesa maestà, un'accusa molto grave. Successivamente l'Omoto-kyo venne perseguitata e tutti i loro simboli vennero distrutti. Onisaburo rimase imprigionato per sei anni e mezzo prima della fine del processo che lo vide accusato di lesa maestà e incitamento alla rivolta. Appena uscito si diede da fare per il suo intento ma l'unico ostacolo che non riuscire fu la sua morte in quanto era uscito dalla prigione ormai anziano e innocuo per il governo.

Della sua dottrina non era rimasto ormai nessuno in grado di poterla diffondere e anche tra i suoi discepoli c'erano contrasti sull'interpretazione della religione: questi motivi più altri segnarono la fine dell'Omoto-kyo e il sogno di portare il Paradiso sulla Terra.

BIBLIOGRAFIA:
"UESHIBA" – John Stevens – Luni Editrice 2003
Sito dell'Aikikai d'Italia – www.aikikai.it
Vari siti sull'Aikido e sul Daito Ryu Aiki Jujuts
 

condividi:

il teatro Kabuki

Kabuki

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Se hai problemi nella visualizzazione dei caratteri, clicca qui.
Storia del Teatro Orientale
 
Visita il Portale del Teatro

Con il termine kabuki (歌舞伎) si indica una forma di teatro sorta in Giappone all'inizio del '600.

Origini

Il Kabukiza nel quartiere di Ginza a Tokyo, uno dei più importanti teatri di kabuki.

Le origini leggendarie di questa forma teatrale risalgono agli ultimi anni del '500 e fanno riferimento a danze eseguite, sulle rive del fiume Kamo a Kyōto, da un gruppo di danzatrici sotto la guida di Izumo no Okuni. La parola Kabuki è formata da tre ideogrammi: 歌 ka (canto), 舞 bu (danza), 伎 ki (abilità). Gli ideogrammi scelti a formare il nome sono l'equivalente fonetico della parola kabuki, derivata dal verbo kabuku ("essere fuori dall'ordinario"), che stava ad indicare l'aspetto e il vestiario in voga al tempo di Toyotomi Hideyoshi (1536-1598) e caratteristico dei cosiddetti kabukimono: il loro stile fu poi adottato nelle prime danze di Okumi.[1]

All'inizio recitato solo da donne, in seguito alla proibizione per motivi di morale, interpretato solo da uomini anche per le parti femminili. Gli attori specializzati nei ruoli femminili sono chiamati onnagata. Il Kabuki, fin dai primi tempi del suo sviluppo, mantenne forti legami col teatro dei burattini, cioè il cosiddetto Jōruri (designato in seguito come Bunraku), infatti la struttura delle due forme espressive era analoga. Il Kabuki fu l'espressione teatrale favorita dei cosiddetti chōnin (lett. abitante della città), cioè della emergente classe borghese cittadina che comprendeva commercianti, professionisti, artigiani. Quindi di fatto si tratta di una forma popolare, inteso come rivolta ad uno strato ampio della popolazione. La novità di queste opere consisteva nella rappresentazione di fatti, solitamente drammatici, realmente accaduti. Anzi spesso tra l'accaduto e la rappresentazione trascorreva pochissimo tempo. Quindi la rappresentazione teatrale costituiva un vero e proprio mezzo di comunicazione che portava a conoscenza di un gran numero di persone l'accaduto.

Caratteristiche

Per capire a fondo il Kabuki bisogna considerare che, quando parliamo di forma teatrale, facciamo mentalmente riferimento al significato che questa espressione artistica ha avuto in occidente, a partire dalla Grecia. Ma la struttura del Kabuki è molto diversa dallo schema del teatro occidentale e ciò ha portato taluni a giudizi abbastanza riduttivi. Di fatto le opere non trattano mai argomenti di ordine generale, questioni esistenziali o riflessioni filosofiche derivanti dall'analisi degli avvenimenti. Quindi sono del tutto assenti situazioni quali, ad esempio, un monologo shakespeariano sulla caducità della vita umana o considerazioni dei protagonisti su questioni di carattere politico. Ciò non è che il riflesso del pragmatismo dei chōnin e di quella che era la loro ideologia. Anche la trama e la caratterizzazione dei personaggi sono abbastanza fragili. Le opere sono spesso confezionate a più mani, ognuno dei coautori si occupava di una singola sezione. Il che comportava scarsa unitarietà dell'insieme. In compenso le singole parti, spesso rappresentate autonomamente in sorta di raccolte di scene celebri, sono compiute nella loro struttura. Come per il , e del resto per tutta la cultura artistica giapponese, vale, anche per il Kabuki, il principio secondo cui non viene assegnata preponderanza, come in occidente, alla comunicazione verbale. E spesso ciò comporta una lettura più difficile e sottile (soprattutto per un occidentale) delle singole situazioni. Le vicende sono espresse attraverso l'emotività dei singoli personaggi, il particolare prevale sempre su considerazioni morali o politiche di carattere generale. Ma proprio per questo la tensione emotiva è altissima così come la comunicazione, spesso non verbale, di situazioni emotive forti.

Struttura scenica

Una rappresentazione di Kabuki

Nei primi tempi le rappresentazioni avvenivano su semplici piattaforme che non mettevano al riparo dagli agenti atmosferici. Col tempo le strutture divennero più complete, fino alla costruzione di edifici veri e propri, alcuni dei quali tuttora esistenti. Un elemento molto particolare di queste opere è il cosiddetto hanamichi (ponte dei fiori), cioè una passerella che gli attori percorrono prima di giungere alla ribalta. Questa soluzione scenica fu mutuata dal teatro . La creazione del palcoscenico girevole (mawari butai) alla fine del '700, cioè in netto anticipo rispetto all'occidente, rispondeva all'esigenza di repentini cambi di scena derivanti da un'evoluzione della tecnica scenica, che richiedeva ritmi dell'azione sempre più serrati.

 

condividi:

lo Shintoismo

Shintoismo

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Se hai problemi nella visualizzazione dei caratteri, clicca qui.

Lo Shintoismo o Scintoismo è una religione nativa del Giappone. Prevede l'adorazione dei Kami, un termine che si può tradurre come divinità, spiriti naturali o semplicemente presenze spirituali. Alcuni kami sono locali e possono essere considerati come gli spiriti guardiani di un luogo particolare, ma altri possono rappresentare uno specifico oggetto o un evento naturale, come per esempio Amaterasu, la dea del Sole. Il Dio dei cristiani in giapponese viene tradotto come "kami". Anche le persone illustri, gli eroi e gli antenati divengono oggetto di venerazione dopo la morte e vengono a loro volta annoverati tra i kami. La parola Shinto nasce dall'unione dei due kanji: 神 shin che significa "divinità", "spirito"(il carattere può essere anche letto come kami in giapponese ed è a sua volta formato dall'unione di altri due ideogrammi 示 "altare" e 申 "parlare , riferire"; letteralmente ciò che parla, si manifesta dall'altare. 申 ne determina anche la lettura) e 道 in cinese Tao ("via", "sentiero" e per estensione; in senso filosofico rende il significato di pratica o disciplina come in Judo o Karatedo o ancora Aikido). Quindi, Shinto significa letteralmente "pratica degli Dèi", "via degli Dèi". In alternativa a Shinto, l'espressione puramente giapponese — con il medesimo significato — per indicare lo Shintoismo è Kami no michi. Il termine "shinto" viene adoperato anche per indicare il corpo del nume, ovvero la reliquia presso cui il kami partecipa materialmente (per esempio una spada sacra).

Nella seconda metà del XIX secolo, nel contesto del Rinnovamento Meiji fu elaborato lo Shinto di Stato 国家神道 (Kokka Shintō?), che mirava a dare un supporto ideologico e uno strumento di controllo sociale alla classe dirigente giapponese, e poneva al centro la figura dell'imperatore e della dea Amaterasu, progenitrice della stirpe imperiale. Lo Shinto di stato fu smantellato alla fine della seconda guerra mondiale, con l'Occupazione del Giappone. Alcune pratiche ed insegnamenti shintoisti che durante la guerra erano considerati di grande preminenza ora non sono più insegnati o praticati mentre altri rimangono grandemente diffusi come pratiche quotidiane senza però assumere particolari connotazioni religiose, come l'Omikuji (una forma di divinazione).

Indice

condividi:

il KI e le sue forme

tratto da www.aikido milano.it

 

I vari tipi di KI

La parola più usata nell'Aikido

KI
la parola più frequentemente usata nell’aikido è KI questa parola è in diretto
contatto con la natura ed è usata ogni giorno.
Si racconta in oriente che all` inizio vi era il caos.
Dal caos ebbe inizio gradualmente le forme del Sole, la Terra, la Luna, e le Stelle.
Noi conosciamo perciò tutte le cose che nacquero dal KI.
Il KI stesso non ha ne inizio ne fine, ne aumenta ne diminuisce,
nonostante le sue forme cambino, egli non cambia.
Noi possiamo vedere molte cose attorno a noi, tutte fatte dal KI e quando esse perdono
la forma, i loro elementi ritornano al KI.
L’Aikido è la congiunzione della mente con la potenza cosmica del KI.
I luminosi significati del KI sono usati nelle nostre giornate quotidiane?
Un buon o cattivo sentimento, timidezza, vigore, coraggio questi sono i termini
usati in ogni nostra giornata.
in ogni parola o atto, KI ha una parte integrale.
Se si priva un corpo del KI, esso muore.
Il corpo è attaccato al KI e perciò s’invigorisce
Al contrario, quando il corpo si separa dal KI esso s’indebolisce .
Nell’allenamento dell’Aikido, dobbiamo sforzarci per trovare il filo che congiunge
il corpo al KI. Perciò dobbiamo capire bene il profondo significato del KI.

KI- WO- NERU ( esercitare il KI )
Questo esercizio sta nel credere che il corpo è attaccato al KI dell’universo.
Si deve considerare l’ombelico come il centro del corpo, e realizzare il KI dall’interno di esso.
Bisogna esercitarsi in ogni movimento.

KI – WO – TOTONOERU ( prepara il KI )
Mantieni la mente sull’ombelico, mantieni la respirazione calma e rimani pronto
per muoverti in ogni direzione.

KI – WO – DASU ( realizzare il KI )
Se consideriamo un braccio nella fase di rilassamento e pensiamo che la nostra
potenza scaturirà proprio attraverso di esso, lo vedremo diventare molto forte e si piegherà difficilmente. Se tu credi che il tuo KI sta scaturendo, esso si è realizzato
Per esempio :
se mentre stai passeggiando qualcuno ti aggredisce alle spalle e tu mantieni il KI
internamente, la mente si trascina dietro il tuo corpo e l’attaccante sarà in grado di batterti
Se realizzi il KI, e la mente è davanti al tuo corpo egli non sarà in grado di spingerti
alle spalle ma verrà respinto dalla sua stessa pressione.
Il KI è simile all'acqua sorgiva, quando il tuo KI scaturisce, il tuo avversario non avrà
più potere su di te.
Ferma la corrente del Ki e sarai preda del tuo avversario.
Se vuoi capire la non resistenza e la non aggressione, essenziali principi dell’Aikido
devi innanzitutto praticare la realizzazione del KI

KI – NO – NAGARE ( la corrente del KI )
Ogni volta che realizzi il KI dondolando le braccia, tu descrivi un cerchio o una linea che assomiglia al corso di un ruscello.
Se fissi un punto sul terreno e usi un asta come raggio, disegnerai un cerchio.
naturalmente l’asta deve essere tenuta rigida, altrimenti il cerchio non sarà perfetto
Se manteniamo sempre il KI sull'ombelico le mani si muovono in cerchio.
Se il KI è realizzato sporadicamente, la tua forma diventa imperfetta e perdi il potere
Muovi il corpo, come se muovessi l'ombelico, e vedrai che le mani disegneranno dei cerchi.

KI – WO – KIRU ( interrompere il KI )
Interrompere il KI significa tagliare la corrente del KI .
Se la tua mente si ferma e mantiene il KI internamente anche per un secondo, la tua forza si ferma.
Analogamente una volta spinto un carro, lo si può far proseguire senza sforzo,
se ci fermiamo dobbiamo nuovamente lottare contro la forza d'inerzia, per rimetterlo
in movimento.
Se non interrompiamo il flusso del KI possiamo unire il nostro potere al suo e potremo
guidarlo dove desideriamo verso l'annullamento della sua aggressività.
Se interrompiamo continuamente il flusso del KI, l’avversario avrà il sopravvento su di noi.

KI – GA – NUKERO ( perdere il KI )
Perdere il KI significa dimenticare l'ombelico e non essere in condizione di realizzare
il flusso del KI.
Quando sei stanco o scoraggiato la causa è la perdita del KI.
Non riuscirai in nessuna cosa se perderai il KI

KOKYU
Ci sono molte tecniche comprese nel Kokyu Nage con numerosi movimenti e variazioni.
Kokyu è movimento del corpo seguito dal KI, se eserciti bene il Kokyu il corpo
è unito alla potenza del KI e i tuoi movimenti saranno corretti.
Nelle arti del Budo si usa la parola forte potere, ma nell'Aikido si usa forte Kokyu.
Kokyu Ho è la via che guida gli altri con il Kokyu.
Kokyu Nage è l'arte dello sconfiggere gli altri per mezzo del Kokyu

HAMNI
Stare di fronte all'avversario nella posizione Hamni.
Se stai di fronte a lui con i piedi uniti la tua mente sarà fissa su di essi a avrai difficoltà
nel muoverti quando ti attacca
Star con un piede in avanti ti permette di avere una posizione stabile e puoi muoverti
rapidamente usando entrambi i piedi in armonia un con l'altro.
Questa posizione non ti farà perdere il centro, devi pensare con la mente e non con le
gambe cosi potrai difenderti da attacchi che provengono da ogni direzione

MA AI
(la distanza che unisce) MA = porta AI = unione
In un reale combattimento la distanza fra te e il tuo avversario è importante.
Se ti avvicini troppo non puoi muoverti e sarai attaccato. Tenere la giusta distanza fra te e lui si dice MA – AI. Se tu realizzi sempre il KI, capirai naturalmente come fare MA – AI in accordo con il tuo corpo.
Se spingi il KI in avanti perderai Ma – ai.

ORENAI TE
E’ chiamato ORENAI TE quando realizzi il KI nel braccio ed è difficile piegarlo anche se non metti alcuna forza.
Se tu sei forte solo quando metti forza sarà inutile quando improvvisamente qualcuno ti piegherà il braccio o ti attaccherà.
Sii rilassato ogni momento e sarai forte ogni momento.
Non dipende dall’angolo del braccio, se continui a realizzare il KI il tuo braccio sarà impiegabile.

FUDO NO SHISEI
Equilibrio stabile non significa non muoversi con facilità, ma mantenere la mente sull’ombelico.
Rilassando il corpo e unendolo al KI, ciò significa che la mente non è disturbata, quando ti muovi, mente e corpo devono muoversi coordinatamente.

IRIMI
Quando la potenza del tuo avversario sta venendo verso di te e la tua contro di lui ci sarà una collisione e il più forte vincerà.
IRIMI è la via dell’avanzare verso l’avversario non per incontrare la sua resistenza ma per guidare la sua potenza.
Per capire IRIMI devi mantenere il punto uno e il braccio impiegabile altrimenti non potrai far si che IRIMI lavori per te.
IRIMI è l’arte speciale fondata unicamente per l’aikido.
IRIMI dimostra direttamente il principio dell’arte della non resistenza, permettendoti di guidare la potenza dell’avversario contro lui stesso anche se è molto più forte di te.

TENKAN
TENKAN è il modo di guidare la potenza dell’avversario senza fermarla, girando il tuo corpo quando sta venendo nella tua direzione.
Nel IRIMI (positivo, cielo, pieno) devi muoverti con forza, ma nel TENKAN (terra, negativo, vuoto) devi eseguire dei movimenti circolari come un vortice.
Con i movimenti del TENKAN puoi risucchiare la potenza dell’avversario e guidarla allo scioglimento, in modo che egli sia in tuo potere.

condividi:

Ikebana l’arte dei fiori recisi

Ikebana

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Se hai problemi nella visualizzazione dei caratteri, clicca qui.

Un Ikebana

Ikebana (生け花 o いけばな) è l'arte giapponese della disposizione dei fiori recisi, anticamente conosciuta come Kadō (華道 o 花道).

La traduzione letterale della parola Ikebana è "fiori viventi"[1], ma l'arte dei fiori può essere anche indicata come Kadō, cioè "via dei fiori", intendendo cammino di elevazione spirituale secondo i principi dello Zen.

La storia

L'Ikebana è un'arte molto antica, ha le sue origini in Oriente (India, Cina) ma solo nel complesso artistico e religioso del Giappone ha trovato il terreno fertile per il suo sviluppo trasformandosi, da iniziale offerta agli dei, in una multiforme espressione artistica, frutto e riflesso della cultura del momento. Le sue origini risalgono al VI secolo d.C. e cioè al periodo in cui il buddhismo attraverso la Cina e la Corea penetra nell'arcipelago nipponico introducendo l'usanza delle offerte floreali votive. In origine l'arte dei fiori era praticata solamente dai nobili e dai monaci buddhisti, che rappresentavano le classi elevate del Giappone, e solo molto più tardi si diffuse in tutti i ceti diventando popolare con il nome di Ikebana. Il primo stile, piuttosto elaborato, fu il Rikka che comprendeva la presenza nella composizione di ben sette elementi: i tre rami principali e i quattro secondari. In seguito venne elaborato uno stile più semplice, il Nageire. A questo seguì il Seika, una specie di Rikka semplificato, meno austero del Nageire. In epoca moderna ogni scuola adottò un proprio stile personale e si cominciarono ad usare anche vasi bassi dal bordo poco elevato, elementi vari come sassi, rami secchi ed altri materiali naturali.

I materiali

Tutti gli elementi utilizzati nella costruzione dell'ikebana devono essere strettamente di natura organica, siano essi rami, foglie, erbe, o fiori. Nelle composizioni dell'Ikebana rami e fiori sono disposti secondo un sistema ternario, quasi sempre a formare un triangolo. Il ramo più lungo, più importante, è considerato qualche cosa che si avvicina al cielo, il ramo più corto rappresenta la terra e il ramo intermedio l'uomo. Così come queste tre forze si devono armonizzare per formare l'universo, anche i fiori e i rami si devono equilibrare nello spazio senza alcuno sforzo apparente.

Le scuole

La sede della scuola Ohara a Tokyo

Le scuole più famose, ognuna col proprio stile, sono: Ikenobo, Ohara, Sogetsu.

Un capitolo a parte è costituito dalle composizioni che vengono preparate per la Cerimonia del tè o Cha no yu, che sono di solito di dimensioni molto contenute e vengono designate come chabana, cioè fiori per il tè.

La diffusione in Italia

L'ikebana inizia a diffondersi in Italia all'inizio degli anni '60 del Novecento, periodo in cui vengono pubblicati i primi manuali in italiano a cura di Jenny Banti-Pereira e Evi Zamperini Pucci.

condividi: