• 3484007614
  • ezio@franchinosrl.com

Archivio dei tag giappone

Il cibo nella cultura nipponica

L'arte culinaria nel Giappone tradizionale

L'atto di mangiare, in Giappone, non è un semplice gesto per nutrirsi bensì è parte intrinseca della cultura nipponica. Il modo di preparazione, di cottura e di consumo è un'arte dove l'estetica, la tradizione, la religione e la storia sono altrettanto importanti, se non di più che il cibo stesso. Ogni fase nella preparazione e presentazione di un piatto è come il movimento di una sinfonia, e un pasto giapponese riflette la più intima natura di questo popolo, il suo amore per una bellezza disciplinata, il suo rispetto per ogni forma d'espressione artistica.
Contrariamente ai costumi occidentali che tentano di mescolare i sapori, i piatti sono costituiti da differenti alimenti ognuno dei quali deve possedere ciascuno la propria individualità di gusto e di aspetto.
I consumi alimentari dei giapponesi hanno profonde radici nella loro storia, e nella natura della loro terra e del loro mare. Le isole giapponesi sono circondate da acque ricchissime di pesce, mentre solo una piccola parte delle terre è adatta alla coltivazione, di modo che – con un paio di eccezioni – il pesce e altri prodotti ittici giocano un ruolo primario nell'alimentazione quotidiana e, a Tokyo al mercato di Ameyoko vicino al parco di Ueno, al mercato centrale di Tsukiji, le bancarelle abbondano di sarde, di piccoli pesci sott'olio, di alghe, di molluschi ecc. La vendita all'incanto dei tonni alle prime ore dell'alba è uno spettacolo al quale ogni turista dovrebbe assistere.
Delle eccezioni suddette la più importante è il riso, pilastro dell'alimentazione giapponese fin dall'antichità, e anche oggi presente in tavola ad ogni pasto, cominciando dalla prima colazione.
Il Giappone non sarebbe il Giappone senza il gohan, che significa sia pasto che riso ed è presente dalla prima colazione alla cena.
Le porzioni sono sempre minuscole, preferendo moltiplicare così i sapori come se ogni pasto fosse un campionario da degustazione.
Qui, non si ricercano i prodotti esotici o fuori stagione, poiché ogni stagione apporta le proprie specialità.

La tradizione culinaria giapponese risale a tempi lontani

Tra il VI e il VII secolo della nostra era, il Giappone è stato largamente influenzato dalle sue strette relazioni con la Cina, quando si importavano il tè verde e i fagioli di soia. La cucina cinese, molto più complessa e più sofisticata, era influenzata dal buddhismo, una religione basata sulla valorizzazione e il rispetto qualsiasi forma di vita – la carne era bandita dall'alimentazione quotidiana in quanto colpiva la vita animale. Tutta questa filosofia ha segnato il menu tradizionale. Questa influenza ebbe fine a metà del IX secolo con la caduta della dinastia Tang. Poi giunse l'età d'oro del Giappone, chiamata età Heian, dal nome di Heian-Kyo, l'antica capitale del Giappone (l'attuale Kyoto).
Per 400 anni, la vita sociale e l'arte in generale furono al loro apogeo. Si elaborò un codice per il cerimoniale e, se la tavola era ancora frugale, la disposizione dei piatti e degli alimenti entrò a far parte della rivoluzione dell'arte e dell'estetismo visivo. Più tardi, l'epoca dei samurai introdusse l'eleganza e l'arte di mangiare divenne un'arte, una raffinatezza e una cerimonia.
I primi contatti con il mondo occidentale non furono indolori. Parimenti a quello cinese, il popolo nipponico considerava gli occidentali come dei barbari, e per far loro piacere, creò a metà del XVI secolo il tempura, traendo ispirazione da alcuni piatti fritti portoghesi e adottando questo principio con un'arte consumata e una leggerezza di tessitura che andavano ben oltre alla versione originale. Non è che alla fine del XIX secolo, dopo una lunga frequentazione del mondo in generale, che la cucina giapponese abbandò la dieta vegetariana.

condividi:

O-SENSEI

Morihei Ueshiba (植芝盛平 Ueshiba Morihei?) (Tanabe, 14 dicembre 1883Tokyo, 26 aprile 1969) è stato un artista marziale giapponese. Considerato uno dei più grandi maestri di arti marziali del XX secolo, è stato il fondatore dell'Aikidō e viene definito Ōsensei (gran maestro) dagli aikidōka.

La vita

Bambino esile e molto fragile viene spinto dal padre, uomo di politica, a praticare il sumo e il nuoto per irrobustire il proprio corpo. Comincia a praticare con costanza e dedizione le arti marziali a seguito di una vicenda che vede coinvolto il padre picchiato a sangue dai suoi avversari politici. Decide quindi di imparare le arti marziali per difendere se stesso e i suoi cari.

Frequenta varie scuole e impara diversi stili di Jūjutsu e di Bukijutsu. L'arte che segnerà il suo cammino marziale sarà però il Daito-Ryu Aiki Jujutsu, l'arte dai samurai della famiglia Takeda.
Il suo principale maestro fu Takeda Sōkaku, considerato da alcuni uno degli ultimi veri samurai, che gli insegnò il Daitō ryū conferendogli il grado che sta sotto solo al Menkyō kaiden e il certificato di maestro di Daitō ryū Aiki Jūjutsu. Aprirà quindi un proprio dōjō a Tōkyō dove inizierà a insegnare l'Aiki Budō, specchio del Daitō ryū e scheletro dell'Aikidō. Fonderà presto l'associazione Aikikai Foundation e il Kobukan dōjō ne diventerà l'honbu dōjō.

Durante il suo soggiorno a Tōkyō verrà a conoscenza di una tragica notizia che vedrà coinvolto suo padre, ormai in fin di vita. Deciderà quindi di partire per Tanabe ed accorrere al capezzale del padre morente, ma durante il viaggio, incontrerà una persona che segnerà profondamente la sua vita, il suo cammino spirituale e l'arte dell'Aikido. Costui fu Ōnisaburō Deguchi, capo di una setta shintoista chiamata Ōmoto-kyō. Deciderà quindi di recarsi ad Ayabe, nella sede dell'Ōmoto-kyō. Durante il suo soggiorno ad Ayabe suo padre muore. Morihei rimarrà ad Ayabe per diversi anni diventando la guardia del corpo di Ōnisaburō Deguchi e partecipando insieme alla setta a diverse vicende.

Successivamente si recò ad Iwama, nella prefettura di Ibaraki, dove fondera l'Ibaraki dōjō e l'Aiki Jinja, il tempio dell'Aikidō. Qui fonderà l'arte, la filosofia e la religione conosciuta col nome di Aikidō e si dedicherà allo studio del Budō e all'agricoltura.

Da questo periodo in poi verranno narrati diversi aneddoti che vedranno protagonista Ueshiba in sbalorditive dimostrazioni anche di carattere sovrannaturale, testimoniate da diversi suoi allievi. Egli infatti da questo momento si presenterà come l'incarnazione di una divinità shintoista, quale Il Re Dragone e affermerà di dover compiere una missione: portare l'armonia nel mondo.

Morirà il 26 aprile 1969 per un cancro allo stomaco.

Evoluzione dell’ispirazione: da “daitoryu-AiKi-Jutsu” ad “Ai-Ki-Do”

Ueshiba nutrì sempre un forte orientamento verso il sentimento religioso shintoista ed esprimeva la propria spiccata vocazione a coltivare la propria spiritualità in forme molto personali, con rituali e pratiche Shintoiste che avevano radici antiche e che spesso erano di difficile comprensione anche per i suoi più stretti allievi ed amici.
Ma fu durante il periodo del suo soggiorno ad Ayabe e soprattutto dopo la sofferta morte del padre che morì senza che lui potesse rivederlo, che la vita del fondatore dell'Aikido ebbe una "svolta" spirituale determinante a seguito dell'incontro con un'importante personalità nipponica dei primi del novecento, Onisaburo Deguchi, sacerdote di una setta nota come "Omoto-kyo", di cui il fondatore divenne amico e discepolo e la cui frequentazione ebbe un'importanza fondamentale nello svuiluppo della concezione dell'Aikido da parte di Morihei Ueshiba.
Onisaburo Deguchi, patriarca della religione Omoto, fu anche il principale responsabile della parentesi politica della vita del fondatore dell'Aikido, il quale all'età di 36 anni si lasciò indurre da Deguchi a seguirlo nei suoi progetti esagerati, se non folli, miranti ad espandere al di fuori dei confini del Giappone l'influenza del partito politico Omoto da lui fondato e della corrispondente religione Omoto, spingendosi in Asia fino alla Mongolia dove trovarono pane per i loro denti e tale avventura politica su base religiosa fallì miseramente.
Avventura collegata alla militanza del fondatore dell'Aikidō nel partito politico collegato alle ideologie sociali della religione Omoto, che gli costò quasi la vita, essendosi salvato da sicura morte unicamente per il miracoloso intervento "in extremis" del consolato giapponese, intervenuto all'ultimo momento quando nonostante si tramandino gesta epiche e fatti di combattimenti strabilianti ad opera del fondatore dell'Aikido sul territorio continentale asiatico, ormai catturati e arrestati dalle autorità cinesi, la loro fine sembrava già segnata ed imminente.
Dopo queste manifestazioni di incontinenza politica, gli aderenti al partito Omoto pare fossero stati tenuti di mira per un po' di tempo in Giappone e fossero anche socialmente osteggiati, ma il fondatore dell'Aikidō pare non abbia sofferto troppo di ciò, poiché dopo tale parentesi si disgiunse stabilmente dalla politica per immergersi completamente nella sua ricerca spirituale, da cui trasse infine i presupposti per questa nuova ed in un certo senso rivoluzionaria disciplina consistente in quell'innovativa arte marziale spirituale denominata Aikidō.

Onorificenze

Cavaliere di IV Classe dell'Ordine del Sol Levante - nastrino per uniforme ordinaria Cavaliere di IV Classe dell'Ordine del Sol Levante
   
Medaglia d'Onore con nastro viola - nastrino per uniforme ordinaria Medaglia d'Onore con nastro viola

 

condividi:

Shin gatsu

Shin gatsu. Aprile. E' innanzitutto il momento dell'hanami, la spettacolare fioritura del ciliegio, il fiore che è simbolo del Giappone e della classe guerriera dei samurai, che nonostante il passare dei secoli continua ad essere a sua volta simbolo dello spirito e della cultura giapponesi.

condividi:

geishe scopriamo la storia

La geisha (芸者?) o gheiscia è una tradizionale artista e intrattenitrice giapponese, le cui abilità includono varie arti, quali la musica, il canto e la danza. Le geisha erano molto comuni tra il XVIII e il XIX secolo, ed esistono tutt'oggi, benché il loro numero stia man mano diminuendo. Nel mondo moderno e soprattutto in Occidente vengono erroneamente considerate come prostitute.

Introduzione

"Geisha", pronunciato /ˈɡeːʃa/,[1] è un termine giapponese (come tutti i nomi di questa lingua, non presenta distinzioni tra la forma singolare e quella plurale) composto da due kanji, (gei) che significano "arte" e (sha) che vuol dire "persona"; la traduzione letterale, quindi, del termine geisha in italiano potrebbe essere "artista", o "persona d'arte".

Un altro termine usato in Giappone per indicare le geisha è geiko (芸妓?), tipico del dialetto di Kyōto. Inoltre la parola "geiko" è utilizzata nella regione del Kansai per distinguere le geisha di antica tradizione dalle onsen geisha (le "geisha delle terme", assimilate dai giapponesi alle prostitute perché si esibiscono in alberghi o comunque di fronte ad un vasto pubblico, vedi più sotto).

L'apprendista geisha è chiamata maiko (舞妓?); la parola è composta anche in questo caso da due kanji, (mai), che significano "danzante", e o (ko), col significato di "fanciulla". È la maiko che, con le sue complicate pettinature, il trucco elaborato e gli sgargianti kimono, è diventata, più che la geisha vera e propria, lo stereotipo che in occidente si ha di queste donne. Nel distretto di Kyoto il significato della parola "maiko" viene spesso allargata ad indicare le geisha in generale.

Storia

Le prime figure presenti nella storia del Giappone che potremmo in qualche modo paragonare alle geisha sono le cosiddette saburuko: esse erano cortigiane specializzate nell'intrattenimento delle classi nobili, che ebbero il loro apice attorno al VII secolo per poi scomparire pochi secoli più tardi, soppiantate dalle juuyo, ossia prostitute di alto bordo, che ebbero più successo tra gli aristocratici.

Per cominciare però a parlare di una figura simile all'odierna "donna d'arte", dobbiamo aspettare fino al 1600, quando alle feste importanti, dove erano chiamate le juuyo, presero a partecipare le prime geisha, che in principio erano uomini. Anche se può sembrare strano, queste figure maschili avevano il compito di intrattenere con danze, balli e battute di spirito gli ospiti e le juuyo partecipanti, qualcosa di simile ai nostri giullari e buffoni medioevali. Col passare degli anni, circa attorno alla metà del secolo successivo, cominciarono a comparire le prime donne geisha, che presero rapidamente piede, contrapponendo alle rudi figure degli uomini la grazia della figura e dei movimenti femminili. Fatto sta che donne geisha furono così tanto richieste che in pochi anni soppiantarono i loro antenati uomini, acquistando l'esclusiva su questa professione.

Quando nel 1617, durante il periodo Edo, Tokugawa Hidetada, secondo shōgun dello Shogunato Tokugawa, rese la prostituzione legale in tutto il Giappone, bordelli e case di piacere si moltiplicarono a dismisura nelle città; poiché in questi anni la professione della geisha era ancora in via di assestamento, spesso questa figura e quella della prostituta si confusero. Infatti, anche se alle geisha fu subito proibito di acquistare la licenza di prostituzione[2], il controllo non era molto stretto. Fu solo nel XIX secolo, quando ormai le geisha avevano completamente soppiantato le juuyo, che si cominciarono ad emanare leggi più precise in tale proposito; in tutte le principali città del Giappone (Kyōto e Tokyo in particolare) furono approntati dei quartieri, detti hanamachi (花街? "città dei fiori"), perché in essi vi potessero sorgere le case da té (ochaya) e gli okiya (le case delle geisha), ben distinti dai bordelli, dove le geisha avrebbero potuto svolgere la loro professione, distinguendola definitivamente da quella delle prostitute. I primi hanamachi furono quelli di Kyoto, capitale imperiale, che avevano nome Yoshiwara e Shimabara.

Katsushika Hokusai, "L'onda" (Tsunami), 1826.

Nel frattempo, in Europa e nel mondo occidentale, il Giappone stava cominciando a fare la sua comparsa nella cultura popolare. Il fenomeno denominato giapponismo, infatti, alla fine dell'800 dilagò in tutto il continente, poiché le navi mercantili inglesi si trovarono d'improvviso davanti ad un porto nuovo, che fino ad allora era stato chiuso ai loro commerci: il Giappone, appunto, che tra il 1866 e il 1869, con un radicale cambiamento politico, pose fine al lungo periodo di isolamento che aveva caratterizzato la sua politica estera fino a quel momento, aprendosi alle importazioni occidentali ed esportando in occidente molte stampe ukiyo-e, che furono immediatamente molto conosciute.

Artisti come Manet, Van Gogh, Klimt e tutto il movimento impressionista furono profondamente influenzati da queste stampe che, sebbene fossero eseguite da artisti contemporanei, si rifacevano a tradizioni pittoriche antichissime, che non si curavano tanto dei volumi e delle prospettive quanto del colore. Il tratto semplice e netto, privo di chiaroscuro, e la stesura omogenea dei colori, sempre smaglianti e chiari, furono aspetti che piacquero molto, all'epoca, poiché rendevano queste stampe (spesso applicate su tavole lignee) estremamente decorative. Il soggetto nipponico, quindi, cominciò spesso ad essere rappresentato anche da artisti europei, come Claude Monet, che dipinse la moglie con il kimono e il ventaglio, o lo stesso Van Gogh, che nel 1887 dipinse "La cortigiana", il ritratto di una donna nei tipici costumi nipponici.

Yoshimachi Geisha.jpg

Il Giappone, insomma, aveva cominciato ad influenzare un po' tutti gli aspetti della vita quotidiana europea (furono rappresentate opere musicali sul tema, come The Mikado e la Madama Butterfly di Puccini, e all'inizio del '900 si affermò la moda dei kimono, indossati dalle signore bene di tutta Europa), ma la sua cultura, come spesso accade, fu travisata. In particolare la figura della geisha, appunto, che agli occhi degli occidentali divenne una donna sensuale e provocante, un'artista del sesso, che rifletteva quella rivolta contro il puritanesimo vittoriano che in quegli anni cominciava a svilupparsi maggiormente.

Lo spirito, infatti, con cui i soldati americani sbarcarono sulle coste giapponesi, nella Seconda guerra mondiale, rifletté subito quest'idea distorta che gli occidentali avevano delle geisha. Costoro, infatti, si aspettavano prostitute di classe, donne completamente asservite all'uomo e desiderose di compiacerlo. Ma questa immagine che si erano portati dietro, non corrispondeva alla realtà, dove le geisha rappresentavano invece gli unici esempi nella civiltà giapponese di donne emancipate e "libere", tutto il contrario di come erano state dipinte.

Nonostante questo, il mito della geisha prostituta, sottomessa e servile non terminò affatto con la fine del conflitto. Contribuì il fatto che, per compiacere i soldati, gli alti ranghi delle forze armate assunsero un vero e proprio esercito (più di 60.000 secondo lo storico orientalista John W. Dower) di prostitute, chiamate geisha girls, che contribuirono sia ad intrattenere gli uomini che a banalizzare ancor più la figura della geisha vera e propria. Difatti, dopo la vittoria americana, si cominciò a sviluppare, nella neonata Hollywood, un filone cinematografico molto prolifico, teso a ridisegnare ancora una volta la figura di queste donne, stavolta come arma anti-femminista. Le donne, infatti, che avevano preso il posto dei mariti, partiti per il fronte, negli enti pubblici e privati, rivendicavano ora con forza i loro diritti, e quale modo migliore di stroncare questi moti se non far tornare di moda la figura di una donna amorevole e sottomessa? Ecco che l'uomo torna, dopo la liberazione dal vittorianesimo, a rifugiarsi in oriente, per sentirsi servito e riverito.

Solo di recente, complice l'editoria, con la pubblicazione di molti volumi e romanzi sull'argomento (sicuramente importante il celebre Memorie di una geisha di Arthur Golden), e la cinematografia, si sta riscoprendo la vera storia di queste donne, che non poteva essere più lontano da quanto fino ad oggi è stato creduto.

Le geisha ieri: l'educazione

Tradizionalmente le geisha cominciavano il loro apprendimento in tenerissima età. Anche se alcune bambine venivano e vengono ancora vendute da piccole alle case di geisha ("okiya"), questa non è mai stata una pratica comune in quasi nessun distretto del Giappone. Spesso, infatti, intraprendevano questa professione in maggior numero le figlie delle geisha, o comunque ragazze che lo sceglievano liberamente.

Due maiko che danzano con il ventaglio. Kamogawa, Tokyo.

Gli okiya erano rigidamente strutturati; le fanciulle dovevano attraversare varie fasi, prima di diventare maiko e poi geisha vere e proprie, tutto questo sotto la supervisione della "oka-san", la proprietaria della casa di geisha.

Le ragazze nella prima fase di apprendimento, ossia non appena arrivano nell'okiya, sono chiamate "shikomi", e venivano subito messe a lavoro come domestiche. Il duro lavoro al quale erano sottoposte era pensato per forgiarne il carattere; alla più piccola shikomi della casa spettava il compito di attendere che tutte le geisha fossero tornate, alla sera, dai loro appuntamenti, talvolta attendendo persino le due o le tre di notte. Durante questo periodo di apprendistato, la shikomi poteva cominciare, se la oka-san lo riteneva opportuno, a frequentare le classi della scuola per geisha dell'hanamachi. Qui l'apprendista cominciava ad imparare le abilità di cui, diventata geisha, sarebbe dovuta essere maestra: suonare lo shamisen, lo shakuhachi (un flauto di bambù), o le percussioni, cantare le canzoni tipiche, eseguire la danza tradizionale, l'adeguata maniera di servire il tè e le bevande alcoliche, come il sake, come creare composizioni floreali e la calligrafia, oltre che imparare nozioni di poesia e di letteratura ed intrattenere i clienti nei ryotei.

Una volta che la ragazza era diventata abbastanza competente nelle arti delle geisha, e aveva superato un esame finale di danza, poteva essere promossa al secondo grado dell'apprendistato: "minarai". Le minarai erano sollevate dai loro incarichi domestici, poiché questo stadio di apprendimento era fondato sull'esperienza diretta. Costoro per la prima volta, aiutate dalle sorelle più anziane, imparavano le complesse tradizioni che comprendono la scelta e il metodo di indossare il kimono, e l'intrattenimento dei clienti. Le minarai, quindi, assistevano agli ozashiki (banchetti nei quali le geisha intrattevano gli ospiti) senza però partecipare attivamente; i loro kimono, infatti, ancor più elaborati di quelle delle maiko, parlavano per loro. Le minarai potevano essere invitate alle feste, ma spesso vi partecipavano come ospiti non invitate, anche se gradite, nelle occasioni nelle quali la loro "onee-san" (onee-san significa "sorella maggiore", ed è l'istruttrice delle minarai) era chiamata. Abilità come la conversazione e il giocare, non venivano insegnate a scuola, ma erano apprese dalle minarai in questo periodo, attraverso la pratica. Questo stadio durava, di solito, all'incirca un mese.

Dopo un breve periodo di tempo, cominciava per l'apprendista il terzo (e più famoso) periodo di apprendimento, chiamato "maiko". Una maiko è un'apprendista geisha, che impara dalla sua onee-san seguendola in tutti i suoi impegni. Il rapporto tra onee-san e imoto-san (che vuol dire "sorella minore") era estremamente stretto: l'insegnamento della onee-san, infatti, era molto importante per il futuro lavoro dell'apprendista, poiché la maiko doveva apprendere abilità rilevanti, come l'arte della conversazione, che a scuola non le erano state insegnate. Arrivate a questo punto, le geisha solitamente cambiavano il proprio nome con un "nome d'arte", e la onee-san spesso aiutava la sua maiko a sceglierne uno che,secondo la tradizione deve contenere la parte iniziale del suo nomee che secondo lei, si sarebbe adattato alla protetta.

La lunghezza del periodo di apprendistato delle maiko poteva durare fino a cinque anni, dopo i quali la maiko veniva promossa al grado di geisha, grado che manteneva fino al suo ritiro. Sotto questa veste, adesso, la geisha poteva cominciare a ripagare il debito che, fino ad allora, aveva contratto con l'okiya; l'addestramento per diventare geisha, infatti, era molto oneroso, e la casa si accollava le spese delle sue ragazze a patto che queste, lavorando, ripagassero il loro debito. Queste somme erano spesso molto ingenti, e a volte le geisha non riuscivano mai a ripagare gli okiya.

Le geisha oggi

Una via dell'hanamachi di Gion, a Kyōto.

Ai giorni nostri, il rituale di formazione ed educazione della geisha non è molto diverso da quello di cento anni fa. Le discipline in cui ogni geisha si deve specializzare sono le medesime, e la serietà con cui vengono offerte è sancita dal kenban (検番 ?), una sorta di albo professionale che obbliga coloro che vi sono iscritte al rispetto di regole morali ed estetiche molto severe, dall'abbigliamento, al trucco, allo stile di vita.

Il loro salario, inoltre, è fissato da organi statali appositamente adibiti; a costoro la geisha deve far sapere a quali incontri ha partecipato e per quanto tempo, perché essa possa ricevere lo stipendio in base al numero di clienti ed al tempo, e perché l'ufficio possa mandare il conto al cliente. In questo modo le geisha non sono più legate economicamente all'okiya, che per legge non può più far contrarre dei debiti alle sue geisha. Il tempo che viene loro pagato è misurato in base a quanti bastoncini di incenso bruciano durante la loro presenza, ed è chiamato senkōdai (線香代? "compenso del bastoncino d'incenso") o gyokudai (玉代? "compenso del gioiello"). A Kyoto, invece, si preferiscono i termini ohana (お花? "compenso del fiore") e hanadai (花代? con lo stesso significato).

Come si è detto precedentemente, le geisha stanno man mano scomparendo. La ragione principale, infatti, del successo delle geisha in passato va trovata nella passata posizione sociale della donna, soprattutto nel periodo Kamakura; essa doveva, infatti, rimanere confinata in casa, e riceveva un'educazione molto approssimativa, che non permetteva loro di conversare e di interessare adeguatamente i loro uomini. La geisha, perciò, compensava una figura femminile poco attraente, assolutamente sottomessa all'uomo e totalmente priva di una propria personalità, fornendo all'uomo quell'interesse che egli non riusciva a trovare tra le mura della propria abitazione. Ed è proprio la mutata condizione sociale della donna dei giorni nostri che sta facendo scomparire la figura della geisha. Le scuole stanno chiudendo una dietro l'altra e le ragazze iscritte sono in numero sempre minore, poiché il duro tirocinio a cui devono sottostare non è più gradito alle nuove generazioni.

Mameyoshi and Fukunami.jpg

Ancora oggi, comunque, le geisha esistono, sebbene in minor numero. Le comunità che resistono sono principalmente quella di Tokyo e quella di Kyōto, la più importante. In quest'ultima esistono cinque hanamachi, i più famosi ed importanti dei quali sono quelli di Gion (diviso in Gion Kobu e Gion Higashi) e di Pontochō (gli altri due sono Miyagawacho e Kamishichiken), mentre Tokyo ne conta sei, anche se di minore importanza, Shimbashi, Akasaka, Asakusa, Yoshicho, Kagurazaka e Hachioji. Le geisha di Kyōto vivono ancora nei tradizionali okiya, e persistono figure come l'oka-asan, mentre fuori da questa città sempre più spesso queste decidono di vivere indipendentemente, in appartamenti nell'hanamachi o nei suoi pressi.

Le giovani donne che desiderano diventare geisha cominciano il loro addestramento sempre più tardi, dopo aver terminato un primo piano di studi nelle scuole statali, o persino l'università. Questo accade specialmente nelle città più popolate e aperte alla cultura occidentale, come Tokyo, dove le geisha sono, in media, più anziane rispetto a quelle di altre città.

Nel moderno Giappone è raro vedere geisha e maiko all'esterno del loro hanamachi. Nel 1920, infatti, c'erano più di 80.000 geisha in tutto il Giappone, ma oggi sono molte meno; il numero esatto non è noto se non alle geisha stesse (che sono molto protettive nei confronti del mistero che, anche nello stesso Giappone, aleggia attorno alla loro figura), ma si stima non siano più di un paio di migliaia. Molte di loro, inoltre, sono ormai quasi solamente un'attrazione turistica. La diminuzione dei clienti, infatti, con l'avvento della cultura occidentale, e la grande spesa che occorre pagare per ottenere l'intrattenimento di una geisha, hanno contribuito al declino delle antiche arti e tradizioni, che oggi sono difficili da trovare.

Geisha e prostituzione

Geisha in Kyoto.jpg

Come già accennato in precedenza, esiste oggi molta confusione, specialmente fuori dal Giappone, riguardo alla natura della professione della geisha; nella cultura popolare occidentale, le geisha sono frequentemente scambiate con prostitute di lusso. L'equivoco, che ha cominciato a diffondersi dal periodo dell'occupazione americana del Giappone, nella cultura cinese è, se possibile, ancor più marcato; in cinese, infatti, la parola geisha è tradotta con il termine yì jì (艺妓), dove (妓) ha il significato, appunto, di "prostituta".

Le geisha sono state spesso confuse con le cortigiane di lusso, chiamate oiran. Come le geisha, queste portano elaborate acconciature e tingono il viso di bianco; ma un semplice modo per distinguerle è che le oiran, portano l'obi (la cintura a fiocco legata in vita nel kimono) sul davanti, mentre le geisha lo portano a contatto con la schiena. La differenza, probabilmente, è dovuta al fatto che per le prime, dovendosi svestire spesso, l'obi risulterebbe in una posizione meno difficoltosa da rifare una volta finita la prestazione.

Un tipo particolare di geisha è costituito dalle cosiddette onsen geisha, "geisha delle terme". Costoro, infatti, sono geisha che lavorano negli onsen, ossia gli stabilimenti termali del Giappone, oppure più genericamente nei villaggi e nei luoghi turistici; sono viste molto male dai giapponesi, che le considerano quasi alla stregua delle prostitute, poiché, lavorando per i grandi alberghi, si esibiscono in danze e canti per un vasto pubblico, invece che per la ristretta cerchia di intenditori, come fa una geisha vera e propria, e ovviamente non sono iscritte al kenban.

Relazioni interpersonali e danna

Le geisha sono donne nubili, e possono decidere di sposarsi solo ritirandosi dalla professione. Se anche gli impegni di una geisha possono includere anche intrattenimenti di tipo amoroso, questo non è previsto nella sua professione. Una vera geisha non viene pagata per fare sesso, anche se può scegliere di avere relazioni con uomini incontrati durante il suo lavoro, sebbene mantenute al di fuori del contesto del suo lavoro come geisha.

Era uso nel passato che una geisha, per stabilirsi, prendesse un danna, o patrono. Tradizionalmente il danna era un uomo ricco, talvolta sposato, che aveva i mezzi per accollarsi le enormi spese di cui il lavoro di geisha abbisognava; anche oggi la tradizione del danna è viva, in Giappone, ma solo qualche geisha ne sceglie uno.

Anche se succedeva spesso che una geisha ed il suo danna si innamorassero, il sesso non era richiesto come pagamento per il supporto finanziario che il danna elargiva. Le convenzioni e i valori che si celavano dietro questo particolare rapporto sono molto intricate, sconosciute ed incomprensibili agli occidentali, come a molti giapponesi stessi.

condividi:

il bonsai

Il termine "bonsai" è giapponese ed è costituito dai due ideogrammi 盆栽: il primo significa vassoio o contenitore (bon), mentre il secondo (sai) significa educare e, in senso lato, il coltivare.

Questi alberi in vaso possono essere paragonati a normali piante che sono state "semplicemente" coltivate in maniera migliore ovvero con cure e attenzioni delle quali generalmente altre piante non necessitano. Per rendere la pianta nel suo complesso più forte e adatta a sopravvivere in spazi ristretti, si procede alla potatura delle radici fittonanti (quelle che penetrano in profondità nel terreno), al rinvaso periodico e ad adeguate potature dei rami.

I bonsai, sia come senso estetico naturale sia come la filosofia orientale suggerisce, devono seguire degli stili ben precisi accomunati dalla conicità del tronco, dalla dimensione ridotta delle foglie e soprattutto dalla naturalezza della pianta stessa, che nel suo insieme (vaso compreso) ha lo scopo di riprodurre la natura in piccole dimensioni.

È sbagliato pensare che i bonsai soffrano nei vasi: è solo un'impressione che si ha, a causa delle forme spesso contorte o delle parti di legno secco create appositamente per dare un effetto di vetustà alla pianta. Se un bonsai soffrisse non arriverebbe a fiorire o addirittura a fruttificare.

La tecnica bonsai, nata in Cina e perfezionata in Giappone, è legata a quello che gli Orientali chiamano seishi: l'arte di dare una forma, di coltivare, il praticare le tecniche più svariate sempre nel rispetto della pianta. I bonsai sono dunque natura viva, piccoli alberi che malgrado le dimensioni contenute esprimono tutta l'energia che è racchiusa in una pianta grande. Alcuni bonsai vengono curati ed educati in modo da creare scene comuni come la pesca o la caccia.[senza fonte]

Gli orientali definiscono il bonsai come l'unione della natura con l'arte, così come il teatro e la danza classica sono per i giapponesi la sintesi di musica e storia. A differenza dell'Ikebana, l'arte di comporre i fiori, il bonsai non si può insegnare con formule esatte o regole matematiche, ma con i comuni principi di botanica, senso estetico e una buona dose di pazienza.

Per esigenze didattiche i maestri giapponesi hanno stabilito regole e principi di bellezza che hanno permesso ai neofiti di seguire un percorso preciso e facilitato per creare un bonsai.

Come in ogni arte esistono veri e propri capolavori, anche plurisecolari e dal valore inestimabile; a differenza di altre attività artistiche, nell'arte Bonsai il soggetto è in continua (e lenta) evoluzione. Oltretutto nel caso di Bonsai famosi, sulla stessa pianta, nel corso del tempo, intervengono diversi maestri e collezionisti, rendendo l'opera indipendente dall'artista che l'ha creata (o raccolta).

condividi:

manga

Tipologie di Manga

In questo post ecco le tipologie di manga presenti in Giappone, oggi cercherò di dettagliarne alcune.
Kodomo (dal giapponese Kodomo che significa bambino): serie di pubblicazioni infantili che sono indicate per i più piccoli come per esempio Gakkou no Kaidan (storia di fanstasmi) ed Hello Kitty. A volte però anche gli adulti si interessano a queste serie.

Shonen (kanji: 少年, hiragana: しょうねん): significa letteralmente "giovane" (uomo) ma il termine si può utilizzare per riferirsi a manga che sono indicati per ragazzi adolescenti anche se a volte attraggono anche le ragazze. Solitamente ci sono lotte e grandi dosi di azione oppure scene romantiche viste con gli occhi di un ragazzo. Alcuni esempi sono Gundam Wing, Dragon Ball ed Inuyasha. I manga diretti ai ragazzi adolescenti sono raggruppati in occidente agli Seinen.

Shōjo (kanji: 少女, hiragana: しょうじょ): è il tipo di manga indicato per le ragazze però a volte vengono comprati anche dai ragazzi. La parola significa "ragazza giovane". Tradizionalmente lo "shōjo puro" si incentra su una grande storia d'amore e un forte protagonismo femminile però esistono anche storie con un discreto quantità di azione e dove i protagonisti sono sia ragazzi che ragazze (soprattutto il sottogenere dedicato alla magia). Per esempio Sailor Moon combina elementi di "shōjo puro" con elementi di azione. Spesso gli shōjo includono al loro interno anche storie shōnen-ai o yaoi. Altre forme per scrivere shōjo sono: shojo, shôjo y shoujo. Secondo alcuni questa tipologia di manga deriva dall'epoca di Osamu Tezuka.

Seinen (青年): è una sottocategoria di manga il cui obiettivo è quello di attrarre un pubblico maschile di diciotto anni o più. L'equivalente femminile è il josei. Un modo molto comune per identificare un seinen manga e per non confonderlo con uno Shonen è quello di controllare se nei dialoghi i kanji sono tradotti anche in kana (hiragana o katakana). La carenza di kana sta ad indicare che tale manga è destinato ad un pubblico adulto. Altro modo per distiguere queste due tipologie di manga è vedere il nome della rivista dove essi vengono pubblicati. Se sono Shonen solitamente vengono pubblicati su riviste che nel nome hanno la parola Young altrimenti hanno la parola Seinen.

Josei (女性) : letteralmente donna, anche conosciuto come redīsu (レディース) o redikomi (レディコミ) che significano letteralmente fumetti per donne. E' un genere di manga creato principalmente per le donne sia giovani che adulte. Le storie trattano di esperienze giornaliere vissute dalle donne che vivono in Giappone. Alcune di queste trattano i problemi che le donne incontrano nel prepararsi all'università.

martedì, gennaio 23, 2007

Tipologie di manga

Kanji MangaOggi vi voglio illustrare le varie tipologie di Manga che si possono incontrare.
Suddivise per target di utenza:
– kodomo manga (per i bambini)
– Shōnen manga (per i maschi adolescenti)
– Shōjo manga (per le femmine adolescenti)
– Seinen manga (per i maschi adulti)
– Josei manga (per le femmine adulte)
Per genere:
– Gekiga (drammatico)
– La nouvelle manga (Unione di storie francesi e manga)
– Semi-alternativo
– Harem manga (un ragazzo circondato da molte donne)
– Mahō Shōjo (una ragazza che si trasforma o possiede poteri speciali)
– Moé (come Mahō Shōjo)
– Mecha (Robots giganti)
– Shōjo-ai (Romanzo lesbico)
– Shōnen-ai (Romanzo gay)
– Dōjinshi (Manga creato per gli affezionati)
Hentai: E’ il nome che si da al manga erotico e pornografico in occidente, in Giappone è conosciuto anche come seijin manga o ecchi. A sua volta, questo tipo di manga, si suddivide in categorie che servono anche per catalogare videogiochi o anime:
Softcore:
• Loli-con (ragazze)
• Shōta-con (ragazzi)
• Yuri (tematica lésbica)
• Yaoi (tematica gay)
Hardcore:
• Futanari (ermafroditi)
• Ero-guro (erotico grottesco)

condividi:

addio sensei Fujimoto

 

Sincero cordoglio per la morte del M° Yoji Fujimoto

Il 20 febbraio 2012 il M° Yoji Fujimoto è venuto a mancare. La cerimonia funebre si terrà
venerdì 24 febbraio, ore 14:30 presso il cimitero di Lambrate. La redazione esprime le più vive condoglianze alla famiglia. Il M° Fujimoto ha rappresentato un riferimento ed un modello come insegnante e soprattutto come uomo per la dignità e la forza con la quale ho condotto la sua battaglia nei confronti della malattia che lo ha colpito. La sua morte significa, dunque, una gravissima perdita per il mondo dell’Aikido e per quanti hanno avuto la fortuna di conoscerlo.

Il M° Yoji  Fuji nasce a  a Yamaguchi nel sud del Giappone nel 1948, il giovane Fujimoto  e sembra destinato a seguire l’arte di famiglia, il kendo, sottoponendosi, sin da bambino, a brusche levatacce per impugnare lo shinai nella quotidiana lezione antelucana sotto la guida del padre, maestro di quest’arte, prima di recarsi a scuola, o sotto il vigile controllo della madre.

Ma verso i quattordici anni, assieme a degli amici, assiste ad una lezione di Aikido, rimanendo avvinto all’istante dalla personalità del fondatore e dei tanti grandi maestri che all’epoca dispensano il loro sapere in quella leggendaria scuola.

Inizia il suo cammino nell’Aikido e quando si trasferisce a Tokyo per frequentare l’università viene ammesso a frequentare l’Hombu Dojo di Tokyo. Era già shodan nel 1962.

L’impegno nella pratica non gli impedisce di applicarsi con profitto agli studi presso l’Università Nitaidai dove fonda anche un gruppo di Aikido ancora oggi attivo e diretto all’inizio dal maestro Tohei e poi dal maestro Masuda.

Ha già il desiderio di conoscere il mondo, sa che deve attendere il conseguimento della laurea in Scienze Motorie, ma non sa ancora che di lì a poco sarà chiamato a diffondere l’arte dell’aikido in Italia.

Il suo arrivo in Italia, benché non coincida esattamente con il ritorno in Giappone del Maestro Tada, è provvidenziale e riesce in qualche modo a colmare l’irrimediabile vuoto lasciato da questi.

Per anni si moltiplica, tenendo raduni, manifestazioni e lezioni in tutti i Dojo d’Italia, avendo come base Milano, dove fonda l’Aikikai Milano.

(Le note sulla vita del M° Fujimoto sono tratte dalla Home page dell’Aikikai Milano)

 

condividi:

i fiori di ciliegio

“Il fiore per eccellenza
è il ciliegio,
l’uomo per eccellenza
è il guerriero.”

Yukio Mishima.

Si narra che il colore dei fiori del ciliegio in origine fosse candido ma che, a seguito dell’ordine di un imperatore di far seppellire i samurai caduti in battaglia sotto gli alberi di ciliegio, i petali divennero rosa per aver succhiato il sangue di quei nobili guerrieri. Anche quelli che, tra i samurai, secondo il loro codice d’onore, decidevano di suicidarsi, sembra fossero solito farlo proprio sotto gli alberi di ciliegio.

Al di là delle leggende, è indubbio che nella cultura tradizionale giapponese il fiore di ciliegio occupa un posto d’onore, tanto da essere divenuto fiore nazionale.

Il ciliegio, in particolare al momento della sua fioritura, esprime in maniera eccezionale la concezione che i nipponici hanno della vita, il loro stretto rapporto con la natura, l’amore per il bello che non è mero senso estetico, bensì comprensione della grandiosità e magnificenza della vita, pur nella sua caducità.

La fioritura dei ciliegi in Giappone avviene in aprile e, a causa della differenza di temperatura fra il nord e il sud dell’isola, comincia nelle regioni più a sud e sale rapidamente verso quelle del nord lungo una linea ideale che viene chiamata sakura zensen (sakura = ciliegio, zensen = fronte, come a ricordare la fronte ora calda, ora fredda a seconda delle variazioni di temperatura). L’intera popolazione giapponese segue con fervido interesse l’avanzamento dello sbocciare dei fiori lungo tutte le regioni: telegiornali e quotidiani pubblicano bollettini in continuo aggiornamento sulle fasi della fioritura, vengono organizzate gite collettive anche dalle scuole e da numerose aziende. Il recarsi ad ammirare la fioritura dei ciliegi è tradizione antica, sembra risalga al periodo Heian (794 – 1185), e viene chiamata Hanami (hana = i fiori, mi (miru) = vedere); la fioritura dura alcuni giorni, in genere uno o due, giorni in cui i giapponesi, accorsi nei parchi delle loro città od in quelli maggiormente famosi per l’evento (come, ad esempio, Yoshino, nella regione montuosa vicino a Osaka), radunati sotto gli alberi, cantano, ballano, mangiano e bevono, con gioiosa partecipazione collettiva a quello che può considerarsi uno dei momenti maggiormente rappresentativi della cultura e del cuore autentico del Giappone.

Coincidendo con l’equinozio di primavera, la fioritura del ciliegio rappresenta la rinascita, il rinnovamento, la forza vitale insita in tutte le cose di questo mondo. Un simbolo di vita, dunque, ma anche del suo naturale “opposto”: il fiore di ciliegio, appena raggiunge il massimo del suo splendore, si stacca e muore, viene portato via dal vento e con esso si disperde. La vista di un ciliegio in fiore è davvero emozionante: fa emergere prepotentemente nel nostro animo sentimenti apparentemente contraddittori, di gioia ma anche di sgomento, di smarrimento. Il fiore di ciliegio è testimone del fatto che la vita è un dono meraviglioso, ma anche che dura poco.

Dunque la tradizione giapponese, altamente simbolica, trova nella fioritura dei ciliegi la sublimazione dell’esperienza della vita, della sua caducità e della sua effimera bellezza.

condividi:

LA BUONA EDUCAZIONE

 

USANZE GIAPPONESI E BUONE MANIERE

usanze giapponesi, come comportarsi in giappone galateo giapponese, incontro d'affari business in giappone tokyo

Vi presentiamo una serie di regole e usanze che vi permetterano di non essere considerati sgarbati o poco rispettosi durante il vostro viaggio in Giappone. Alcuni di questi consigli sono estrememente tenuti da conto e possono essere utili a coloro che vogliono fare bella figura con un partner d'affari giapponese.

 

CIBO E RISTORANTI

  • E' poco educato mangiare o bere mentre si cammina per strada

  • Non mordersi le unghie in pubblico o leccarsi le dita di fronte ai commensali

  • Nei ristoranti viene fornito un tovagliolo umido per pulirsi, ma va utilizzato solo per pulirsi le mani e non faccia e altre parti del corpo.

  • In Giappone è maleducazione versarsi da bere da soli, ognuno versa all'altro.

  • Se non vuoi più da bere, lascia pure il bicchiere pieno.

  • E' buona norma dire "Itadakimasu" prima di mangiare e "Gochisosama deshita" appena finito il pranzo, specialmente se vi viene offerto da qualcuno.

  • Quando si condivide una pietanza, bisogna prendere la propria parte e metterla sul proprio piatto prima di consumarla.

  • Non fare richieste eccessive durante la preparazione del vostro pranzo, e non abbuffarsi mai.

  • Non infilzare mai il cibo con le bacchette, e non usarle MAI per spingere il cibo nel piatto di un'altra persona con la parte che avete messo in bocca, usate l'altra estremità.

  • Non indicare mai qualcuno usando le bacchette.

  • Non lasciare mai le bacchette infilzate nel cibo.

  • E' normale alzare la ciotola di riso o zuppa giapponese fino al mento per evitare di far cadere residui durante il tragitto delle bacchette fino alla bocca.

  • Il cibo tradizionale giapponese viene servito in diversi piattini en ciotole, ed è normale passare da una all'altra senza prima finirle completamente.

  • Mai lasciare il piatto e la tavola in disordine, piegare i tovaglioli in maniera ordinata.

  • Non protarsi a casa decine di tovaglioli, bacchette, spezie da un ristorante come souvenir.

  • Non mettere la salsa di soia sul riso, non è il suo scopo.

  • Non mettere zucchero o latte nel the Giapponese

  • Se ospitate qualcuno offritegli sempre quello di cui potrebbero aver bisogno prima che ve lo chiedano, perchè non lo faranno mai.

  • Cercate di nonusare mai gli stuzzicadenti.

  • E' normale fare rumori quando si mangiano noodles, udon e altri piatti umidi.

  • In giappone il conto si paga di solito alla cassa e non al cameriere, non sono inoltre previste mance.

  • E' considerato rude contare il resto ricevuto al ristorante.
  •  

condividi:

la cerimonia del thè

 

La diffusione del tè è universale, ma in nessun altro luogo al mondo questa bevanda ha fornito un apporto così sostanziale alla cultura come in Giappone, dove l'atto di preparare e bere il tè (la cerimonia del tè, appunto, o cha no yu , che alla lettera significa semplicemente "acqua calda e tè") ha acquisito un alto significato estetico, artistico e filosofico.
Essa non è un semplice passatempo per conversare di frivoli pettegolezzi o un modo raffinato di dissetarsi. Esprime piuttosto una filosofia di vita. Gli ospiti che intervengono alla cerimonia devono trovare in essa un'oasi di pace e di tranquillità dalle ansie del mondo, dove la mente possa aprirsi a una serena riflessione o meditazione. La cerimonia del tè incarna la ricerca della bellezza del popolo giapponese, la cui raffinatezza si esprime tramite la semplicità e la povertà delle cose. Una tazza di tè per soddisfare l'umano bisogno di serenità.
Le varie scuole differiscono le une dalle altre per i dettagli e le regole, ma mantengono intatta l'essenza della cerimonia che il grande maestro Sen no Soeki detto Rikyu (1522-91) aveva istituito. Quest'essenza è arrivata fino a noi incontestata e il rispetto per il fondatore è uno degli elementi che tutte le scuole hanno in comune.
Egli ha raccolto i principi fondamentali (o virtù) della cerimonia del tè in quattro semplici parole: 

1)  wa, armonia tra le persone e con la natura, armonia degli utensili e la maniera in cui essi vengono usati; 

2)  kei, rispetto verso tutte le cose e sincera gratitudine per la loro esistenza; 

3)  sei, purezza interiore, ma anche nitore e pulizia delle cose che ci circondano; 

4)  jaku, tranquillità e pace della mente, conseguente alla realizzazione dei primi tre principi. 

La base della filosofia della cerimonia del tè è quindi l'armonia con la natura. La cerimonia si svolge solitamente in piccole costruzioni in legno che sorgono all'interno di meravigliosi giardini di aspetto totalmente naturale, con piante fresche, acque e rocce. Gli utensili, le tazze sono in materiale naturale e variano durante i diversi mesi dell'anno per essere sempre in accordo con la stagione.
La cerimonia è caratterizzata da un'estrema semplicità: la casa del tè è quasi spoglia nella sua totale mancanza di arredi e nel suo rigore. Gli utensili, solitamente poco decorati, hanno forme estremamente semplici e funzionali, in linea con il gusto dei giapponesi, che ammirano più il garbato riserbo della vistosa ostentazione. Tutto è semplice, umile, frugale.
La casa del tè è solitamente costruita in legno, bambù e paglia, con finestre e porte costituite da pannelli scorrevoli in legno e carta di riso; il pavimento è ricoperto da tatami, le stuoie in paglia sono quelle delle tipiche abitazioni tradizionali.
Un vero e proprio rituale guida non solo l'abile tecnica del maestro di cerimonia, che ha studiato per anni e anni, ma anche i gesti degli ospiti intervenuti, che sorbiranno il loro tè seguendo precise regole.
La cerimonia del tè fu anche una rivoluzione della cucina giapponese, con la creazione dello stile kaiseki. Fu Rikyu a chiedere un nuovo e leggero stile di cucina che si armonizzasse con il suo rituale. 
Essendoci diverse scuole, vi sono vari modi di celebrare la cerimonia del tè, ma tutti condividono gli stessi elementi essenziali.
La casa del tè (sukiya) comprende una sala per il tè (chashitsu) e una stanza per la preparazione (mizuya), una sala d'attesa (yoritsuki) e un sentiero (roji) che, attraverso il giardino, porta fino all'ingresso della casa del tè. La casa è generalmente situata in un angolo del giardino particolarmente boscoso.
I principali utensili, generalmente dei veri e propri oggetti d'arte, sono la ciotola per il tè (chawan), il contenitore del tè (chaire), il frullino di bambù (chasen) e il mestolo di bambù (chashaku).
Sono da preferire abiti con colori discreti. Nelle occasioni di grande solennità, gli uomini portano un kimono decorato con lo stemma familiare e le bianche calze tradizionali giapponesi (tabi). Le donne indossano lo stesso abbigliamento. Gli invitati devono portare con sé un piccolo ventaglio pieghevole e un pacchetto di fazzolettini di carta (kaishi).
La cerimonia del tè comprende di solito una prima parte nel corso della quale viene servito un pasto leggero di sette portate (kaiseki), un breve intervallo, il nakadachi, il goza iri che è la parte principale della cerimonia e durante la quale viene servito un tè denso (koicha), e l'usucha durante il quale viene servito un tè meno denso del precedente. Tutta la cerimonia completa dura circa quattro ore; spesso, tuttavia si svolge soltanto l'usucha, il quale richiede al massimo un'ora.
Gli invitati, di solito in numero di cinque, si riuniscono nella sala d'attesa. L'ospite li raggiunge e li conduce per un sentiero attraverso il giardino fino alla sala del tè. Lungo il sentiero vi è una conca in pietra piena d'acqua, dove gli invitati si lavano le mani e si sciacquano la bocca. L'entrata nella sala è così piccola che essi devono superarla in ginocchio, in un attegiamento quasi di umiltà. Nell'entrare nella stanza, che è dotata di un focolare fisso o di un braciere portatile per il bollitore, ciascun invitato si inginocchia davanti al tokonoma e fa un rispettoso inchino. Poi, tenendo il proprio ventaglio pieghevole davanti a sé, egli ammira il kakejiku appeso nel tokonoma; quindi, rivolge nello stesso modo il proprio sguardo verso il focolare o il braciere. Non appena tutti gli invitati hanno terminato di ammirare tutto ciò, prendono posto, a cominciare dall'invitato più importante che prende posto vicino all'ospite. Dopo lo scambio dei convenevoli, viene servito il pranzo con dei dolci per terminare il pasto leggero.
Dietro suggerimento del loro ospite, gli invitati si ritirano e vanno ad aspettare sulla panchina che si trova fuori, nel giardino interno, vicino alla sala del tè.
L'ospite fa suonare il gong sospeso vicino alla sala per indicare che la cerimonia principale sta per iniziare. L'uso vuole che egli colpisca il gong da cinque a sette volte. Gli invitati si alzano in piedi ed ascoltano attentamente; poi, dopo aver ripetuto il rito della purificazione alla vasca piena d'acqua, entrano di nuovo nella stanza. I pannelli di bambù, sospesi all'esterno davanti alle finestre vengono ritirati da un assistente al fine di illuminare l'ambiente. Il kakejiku è sparito e nel tokonoma è stato sistemato un vaso con un ikebana. Il recipiente per l'acqua fresca e la scatola in ceramica del tè sono al loro posto prima che l'ospite entri, portando la ciotola per il tè contenete il frullino di bambù e il mestolo per il tè. Gli invitati guardano e ammirano i fiori e il bollitore come avevano fatto all'inizio della cerimonia.

    L'ospite si ritira nella stanza per la preparazione e ritorna ben presto con il recipiente per l'acqua, il mestolo, e un appoggio per il bollitore o per il mestolo. Asciuga poi la scatola del tè e il mestolo con un telo speciale, chiamato fukusa, e lava il frullino nella ciotola del tè contenente acqua calda presa dal bollitore con il mestolo. Vuota quindi la ciotola, versando l'acqua nel recipiente vuoto che aveva portato in precedenza e l'asciuga con un chakin, un pezzo di tela di lino. Quindi prende la scatola del tè e con l'apposito cucchiaio prende del matcha, tre cucchiai pieni per invitato; poi, prende un mestolo di acqua calda dal bollitore e ne versa circa un terzo nella ciotola e il resto di nuovo nel bollitore. Infine, rimescola con il frullino fino a che non si addensa, diventando come un puré di piselli sia per la consistenza che per il colore. Il tè così preparato si chiama koicha. Il matcha usato proviene dalle giovani foglie di piante di tè che hanno da venti a settanta anni o anche più. L'ospite depone la ciotola al suo posto, presso il focolare o il braciere, e l'invitato più importante si avvicina in ginocchio per prenderla; si china, quindi, davanti agli altri invitati e mette la ciotola sul palmo della sua mano sinistra, sorreggendone un lato con la mano destra. Dopo averne bevuto un sorso, ne loda l'aroma, quindi beve ancora uno o due sorsi. Pulisce il punto della tazza da cui ha bevuto con il kaishi e passa la ciotola al secondo invitato, che beve e asciuga la tazza esattamente nello stesso modo. La ciotola viene così passata al terzo, al quarto e quinto invitato perché tutti possano gustare il tè.

Quando l'ultimo invitato ha finito, porge la ciotola al primo, che a sua volta la restituisce all'ospite.
L'usucha differisce dal koicha nel fatto che il matcha usato proviene dalle giovani foglie di piante che non hanno più di tre o cinque anni. La bevanda che ne deriva è verde e schiumosa. Le regole osservate nel corso di questa cerimonia sono simili a quelle seguite durante quella del koicha, con le seguenti differenze essenziali: il tè viene preparato individualmente per ciascun invitato con due cucchiai o due cucchiai e mezzo di matcha; ogni invitato è tenuto a bere interamente la sua parte; l'invitato pulisce la parte della tazza che ha toccato con le labbra con le dita della mano destra e poi si asciuga le dita con il kaishi. Dopo aver trasportato gli utensili fuori dalla stanza, l'ospite in silenzio si inchina davanti agli invitati, indicando che la cerimonia è finita. Gli invitati lasciano il sukiya accompagnati dal loro ospite. (Adattamento del testo tratto da 
www.nipponico.com, ottimo sito, ricco di articoli sull'universo giapponese).

Al complicato rapporto tra Rikyu e Toyotomi Hideyoshi, uno degli unificatori del Giappone, e alla cerimonia del tè, è dedicato un interessante capitolo del libro "Samurai. Ascesa e declino di una grande casta di guerrieri", di cui consiglio in ogni caso la lettura, per una visione d'insieme della storia del Giappone attraverso le vicende della leggendaria casta dei samurai, qui riportata alla sua realtà documentabile. Allo stesso soggetto è ispirato anche il romanzo "Il maestro del tè".


condividi: